Mai nella storia degli Stati Uniti d’America si vide l’avvicinarsi del giorno delle elezioni presidenziali come una vera agonia paragonabile a quella di questo inizio d’autunno ad un anno o poco più dalle presidenziali dell’anno prossimo. Mai si era visto un ex Presidente in stato di arresto, ammanettato e liberato su cauzione il quale ha reali probabilità di tornare alla Casa Bianca dove oggi vive un uomo anziano, intelligente ma fragile, che si inceppa, inciampa, cade e quando si rialza non ricorda cosa stesse dicendo, dice cose che poi il suo ufficio stampa deve rimodellare.

Il partito repubblicano, il Grand Old Party, non è più il partito dei soli conservatori ma anche della massa crescente degli americani delle che rifiutano lo Stato, e fra loro milioni di emigrati regolari di seconda o terza generazione, americani di destra provenienti dal Messico, da Cuba, dall’America Centrale nazionalisti e spesso razzisti nei confronti degli illegali che cercano di varcare la sterminata frontiera con il Messico per un sogno americano prossimo all’incubo per le reazioni interne.

Donald Trump non è solo, nel partito repubblicano, perché ha un concorrente di gran prestigio e successo come Ron DeSantis – governatore della Florida – che però ha subito una serie di rovesci elettorali e frustrazioni sulla spesa interna.

Biden, non si sa. Una corrente di pensiero nel partito democratico sostiene la ricandidatura (di fatto obbligata) di Joe Biden facendo però attenzione al vicepresidente perché, in caso di morte del vecchio Joe, sarebbe lui o lei a subentrare. E la situazione investe l’attuale vicepresidente Kamala Harris, che ha collezionato soltanto impopolarità perché non regge il confronto con il vero idolo di colore che è Michelle Obama, ma che non ha intenzione di candidarsi, almeno per ora.

Kamala Harris ha cercato di vendere lo sbiadito colore della sua pelle indiana, suo padre era un funzionario dell’impero britannico in India così come il padre di Obama era un funzionario dell’impero britannico in Kenya, ma non è riuscita anche a causa del suo discusso passato come Procuratore che mandava in galera gli adolescenti neri per spaccio di droga.

Un’altra area molto più bassa del partito democratico, destinata a restare sconfitta, avrebbe voluto fare un triplo salto mortale candidando uno dei maggiorenti del partito al posto di Biden. Ma sarebbe servito il consenso di Biden stesso il quale invece ha dichiarato più volte di sentirsi in perfettissima forma, di avere chiari in mente tutti i dossier che riguardano il suo paese e il mondo intero e ha riso in faccia a quelli che gli consigliavano di prendersi un meritato riposo. Così stando le cose la riedizione di un duello come già lo vedemmo le presidenziali di quattro anni fa fra Trump e Biden e l’ipotesi da cui è difficile svicolare.

Nel campo opposto Trump è sottoposto ad una pressione giudiziaria potentissima perché se lo contendono sia i tribunali della Georgia che quelli di New York, anche se i primi si occupano del caso più politico e cioè della pretesa violazione per le norme costituzionali per tentare di rovesciare il risultato che lo espulse da White House.

Intanto si avvicina il momento dell’inizio del “caucus” e delle primarie che assumono forme diverse per tradizioni di Stato. Le regole elettorali cambiano: non sarà facile capire se in prossimità delle nomination porteranno due e solo due aspiranti presidenti in duello fra loro. Questa è una caratteristica della costituzione americana che non ha l’uguale in nessun’altra democrazia ed è quella della più antica democrazia repubblicana del mondo disegnata in modo da poter servire un paese in cui si andava ancora a cavallo in carrozza per portare le schede elettorali anche con l’uso di treni e carri, come abbiamo visto nelle elezioni in cui ha prevalso Joe Biden. Trump è accusato in pratica di tentato colpo di Stato non riconoscendo la validità di una mai vista quantità di schede dotate a domicilio dai lettori tutti i democratici e tutti assenti. La Georgia fu uno di quegli Stati in cui i repubblicani sembravano stravincere finché due camion di schede votate capovolse i pronostici. Quello che seguì furono i tumulti di Capitol Hill del 6 gennaio quando morirono un poliziotto e una manifestante.

Da allora il paese è rimasto spaccato in maniera irreversibile. Il livore e l’odio tra repubblicani sostenitori di Trump e tutti gli altri è un fatto totalmente inedito nella storia americana perché la buona regola era che ci si ficcano le dita negli occhi fino al momento della proclamazione del vincitore ma poi tutti fanno pace ed inizia una nuova stagione di governo. Ciò non è accaduto alle ultime elezioni e oggi la “bandiera rossa”, vale a dire repubblicana (perché curiosamente in America il color rosso non ricorda la bandiera comunista ma il vessillo della destra), che decora il Midwest industriale di origini svedesi e tedesche, perché i Blue Collars – ovvero la classe operaia equivalente al nostro Cipputi – sembra che si stiano sganciando dalla leadership democratica così come stanno facendo moltissime comunità nere che accusano i democratici di nascondere sotto le grandi parole fraterne e sociali un sostanziale razzismo e una sollecitazione un po’ troppo entusiasta all’uso dell’aborto.

Cresce infatti il numero dei giornalisti intellettuali neri (specialmente donne) che affrontano la questione dell’aborto nelle comunità nere come una forma di genocidio latente e quindi si assiste a questo fenomeno assolutamente strano ma che ha la sua ragione di masse di persone che secondo le tradizioni dovrebbero costituire l’ossatura della sinistra e che invece sembrano pronte a votare a destra non tanto un reazionario conservatore, ma un fanfarone populista che sa usare la sua esperienza di conduttore televisivo e di grande uomo d’affari.

Paolo Guzzanti

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