Per tre anni, nel più assoluto riserbo, l’intelligence navale israeliana ha seguito le tracce di un uomo che sembrava un marinaio come tanti. Muscoli, tatuaggi, viaggi tra Africa ed Europa, corsi da capitano mercantile. In realtà, dietro quella copertura si celava uno dei progetti terroristici più ambiziosi mai concepiti da un’organizzazione terroristica.

L’uomo si chiama Imad Amhaz, noto all’interno dell’organizzazione come “The Captain”. È stato prelevato senza sparare un colpo, nel cuore del Libano, in una notte di novembre del 2023, da un commando della Shayetet 13, l’unità d’élite della Marina, l’equivalente israeliano dei Navy SEALs. A rendere possibile l’operazione non è stata solo l’audacia militare, ma soprattutto il lavoro paziente e metodico di una giovane analista dell’intelligence navale, che chiameremo A. Età: 23 anni, arabista, lavora nel settore che individua le minacce potenziali contro la Marina israeliana. È stata lei a notare che Amhaz non era un semplice militante di Hezbollah. Intorno a lui orbitavano figure chiave dell’organizzazione, uomini legati direttamente al vertice militare e al leader Hassan Nasrallah. Incontri riservati, viaggi sospetti, una traiettoria personale che non coincideva con quella di un affiliato qualunque.

A. ricostruisce il quadro: Amhaz era stato scelto come perno centrale di un progetto segretissimo, noto internamente come “il dossier marittimo”. Un’iniziativa seguita personalmente da Nasrallah e dal capo di stato maggiore Fuad Shukr, anche lui in seguito eliminato da Israele, e affidata a una ristrettissima cerchia di uomini. L’idea, emersa dai lunghi interrogatori, non era un singolo attentato imminente, ma la costruzione di una capacità strategica nuova: trasformare una flotta mercantile civile in un’arma terroristica mobile, capace di muoversi senza destare sospetti, entrare in porti internazionali e colpire obiettivi strategici con effetti devastanti. Israele ha definito il progetto come una sorta di “11 settembre marittimo”, proprio per il principio che lo ispirava: usare una piattaforma civile per infliggere un colpo asimmetrico di portata storica.

Quali potevano essere gli obiettivi? Gli interrogatori indicano che Hezbollah non aveva ancora deciso il bersaglio finale, né le modalità operative. Tra le ipotesi plausibili figurano attacchi a infrastrutture energetiche offshore, come i giacimenti di gas israeliani, incursioni armate attraverso porti come Haifa o Ashdod, oppure il dirottamento di navi passeggeri. Ma c’è un’ipotesi ulteriore, non esplicitata ma coerente con la logica del progetto: l’uso di una nave mercantile carica di esplosivo fatta deflagrare all’interno di un porto “nemico”. Un’esplosione di questo tipo, in un’area portuale densamente infrastrutturata, potrebbe produrre danni difficilmente immaginabili, paragonabili – se non superiori – a quelli nel porto di Beirut del 2020. Una bomba trasportabile, anonima, di enorme potenza, capace di colpire ovunque.

È stata forse questa prospettiva, intuita da A., a convincere Israele ad agire. Quando Amhaz si è trasferito nella città costiera di Batroun per completare il suo percorso di istruzione da capitano mercantile, A. ha compreso che si era aperta una finestra irripetibile. La proposta di rapimento è salita rapidamente lungo la catena di comando, ottenendo l’approvazione politica e militare. Oggi Amhaz è ancora detenuto in Israele. Il “dossier marittimo” non è considerato chiuso: secondo l’intelligence, Hezbollah potrebbe tentare di portarlo avanti, seppur con sostanziali modifiche. Ma una cosa è certa: senza il lavoro invisibile di A., il terrorismo avrebbe potuto fare un salto di qualità.