Colmare il divario
I bizzarri parametri del World Economic Forum per stimare il divario di genere nel mondo
Come ogni anno, giugno è il mese del Global Gender Gap Report del World Economic Forum, giunto ormai alla sua diciannovesima edizione. L’intento dichiarato è quello di offrire una fotografia del divario di genere nel mondo. Ma le notizie che arrivano, almeno all’apparenza, non sono incoraggianti: l’Italia si piazza all’85º posto su 148 Paesi a livello globale e al 35º su 40 in Europa.
Una posizione che è il risultato della media di quattro indici: Partecipazione e opportunità economiche (siamo al 117º posto, stretti tra il Gabon – al debutto quest’anno – e l’Angola); Istruzione (l’Italia è 51esima); Salute e sopravvivenza (89º posto, appena sotto il Ciad) ed Empowerment politico (65º posto, un gradino sopra la Sierra Leone, classificata nel Democracy Index 2024 dell’Economist come “regime ibrido”, con un colpo di stato sventato appena a novembre 2023). Una catastrofe? Non proprio. Ma solo se ci rimbocchiamo le maniche. In ambito sanitario, per migliorare non serve inventarsi nulla: basta copiare il faro della salute femminile mondiale, la Bielorussia. Da noi, la speranza di vita è di 81 anni per gli uomini e 85 per le donne. In Bielorussia si vive meno: 69 anni gli uomini, 79 le donne. Ma – e qui arriva la genialata metodologica – il punteggio dell’indice premia chi ha un divario più ampio tra i generi. Meno vivono gli uomini, meglio va. Con un gap del 6%, la Bielorussia è leader indiscussa. Se anche da noi gli uomini si impegnassero a morire prima, potremmo scalare posizioni e superare almeno Ciad, Benin e Zimbabwe.
Se il piano “morte precoce selettiva” non dovesse funzionare (per i soliti cattolici che potrebbero boicottarlo), possiamo puntare sulle “opportunità economiche”. Qui guidano la classifica Botswana, Liberia e il Regno eSwatini (lo Swaziland, per i nostalgici). Sommati, i loro PIL raggiungono i 26 miliardi: quanto l’Umbria. Con la differenza che hanno dieci volte la loro popolazione. Il PIL pro capite? Dieci volte inferiore. Ma al WEF il PIL non interessa. Quel che conta è la parità nell’accesso al lavoro. In Botswana, ad esempio, le donne non solo partecipano, ma dominano nelle posizioni manageriali. Hanno addirittura superato la soglia dell’“indice 1”. E qui scatta l’effetto paradosso: l’indice si ferma. Superi l’1? Non cambia nulla. Ma come? Non si voleva misurare la “parità”?
Secondo alcune fonti, in Botswana oggi anche un lavoratore su quattro nelle miniere è donna. Un risultato frutto di riforme strutturali: nel 1992 vennero aboliti i divieti di lavoro notturno e nelle miniere per le donne; nel 2005 fu eliminato il Marital Power Act, permettendo loro di scegliere il domicilio, firmare contratti e – attenzione – aprire un conto corrente senza l’autorizzazione del marito. Riforme che in Italia, francamente, ci mancano. Sul fronte istruzione, poco da fare. In testa ci sono 35 Paesi tutti con punteggio massimo (indice 1). Noi abbiamo 0,998, dovremmo essere parimerito con altri 7 Stati al secondo posto, ma qui l’algoritmo impazzisce. Invece di metterci parimerito, ci relega al 51º posto. Non è chiaro secondo quale criterio. Forse differenza reti. O goal in trasferta. Se ne avete una spiegazione migliore, scrivetemi. Io prometto che ci lavorerò.
La vera débâcle è sull’empowerment politico. Islanda e Finlandia dominano – e ci sta. Ma sorprende il terzo classificato: il Bangladesh. Qui, il punteggio è gonfiato dagli anni in cui il Paese ha avuto una donna a capo del governo, perché un indice è “quanti anni negli ultimi cinquanta ha governato una donna?” Dal 1991 a oggi si sono alternate due leader: Sheikh Hasina Wazed (20 anni di governo) e Khaleda Zia (12 anni). Record mondiale femminile. Peccato che oggi Sheikh Hasina non sia più al potere. È caduta per un’insurrezione di piazza, dopo aver smantellato le strutture democratiche del Paese e introdotto un criterio di reclutamento nella PA piuttosto originale: un terzo dei posti assegnati a figli e nipoti dei combattenti della guerra del 1971. Risultato: Hasina è fuggita, è sotto processo per crimini contro l’umanità e oggi guida il Paese Muhammad Yunus, Premio Nobel. Che, ovviamente, peggiora la classifica.
Per noi resta una sola speranza: aumentare la presenza femminile in Parlamento e, soprattutto, tifare che Il Presidente Giorgia Meloni – sperando che il maschile nel titolo non ci penalizzi – resti Presidente del Consiglio per i prossimi cinquant’anni. A quel punto, altro che Islanda!
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