Il volume curato da Jacobelli
“I passaggi di Ernesto De Martino” , il senso della vita è creare un valore con gli altri
«In quanto marxista il problema della morte è un problema che non mi pongo», così Orson Welles, che impersona un intellettuale comunista, nel bellissimo film di Pasolini La ricotta. Grosso modo questa è stata la posizione di molti miei coetanei negli anni ‘70. A quell’epoca trovai su un vecchio numero dei “Quaderni piacentini” (del 1965) un colloquio tra Cesare Cases e Ernesto de Martino che risaliva al 1963, quando de Martino morì di cancro a maggio in una clinica romana, e Cases va a trovarlo appena due mesi prima.
Un dialogo straordinario per intensità e per rilievo culturale. Secondo Cases, intellettuale marxista (sia pure finissimo), nella società senza classi l’individuo potrà coincidere con la specie e dunque non temere più la morte (la specie continua…), per il grande etnologo de Martino (oggi misconosciuto), anche nella società più razionale la morte individuale non perde la sua drammaticità. Ho voluto partire da questo colloquio per presentare un volume prezioso – I passaggi di de Martino (Sossella) – curato con equilibrio e acume dall’antropologo Gian Piero Jacobelli, che comprende anche una scelta antologica dall’opera più significativa, benché pletorica e ridondante, di de Martino (La fine del mondo), uscita postuma nel 1977). Mi limito qui a evidenziare solo il tema di fondo che attraversa lo sterminato non-libro di de Martino – e cioè la “crisi della presenza” – anche avvalendomi dei commenti di Jacobelli, il quale sottolinea giustamente il nesso tra disperazione (la disperazione di vivere per la morte) e speranza(la speranza di una possibile rinascita).
Per “crisi della presenza” si intende una crisi permanente del nostro esserci, il rischio sempre presente a ciascuno di una perdita definitiva della propria presenza nel mondo. Una crisi che si presenta (in forme parossistiche) nelle psicopatologie ma che è connaturata alla nostra condizione, tanto che nel corso della Storia l’umanità ha cercato di dare alcune risposte a questa crisi, specie in un ambito magico-religioso, e comunque attraverso un simbolismo mitico-rituale presente in ogni cultura. Ricordo solo, di sfuggita, come appena dopo la guerra avvenne uno scontro nel Pci tra quanti intendevano esplorare l’”irrazionale” (Carlo Levi, Pavese e appunto de Martino) e chi invece stigmatizzava qualsiasi apertura nei confronti del sacro (de Martino fu indirettamente stroncato da Togliatti).
Ora, de Martino intende contrapporre alla crisi della presenza, al rischio di perdere se stessi e il mondo nella psicosi, a questa minaccia sempre incombente di dissoluzione della nostra individualità, l’”ethos del trascendimento”, ovvero una presenza in qualche modo valorizzante.
Il riferimento qui è alla capacità umana di trascendere sempre la situazione data emergendo come esistenza operante, progettuale, aperta alla comunicazione e alla valorizzazione. Se la fine biologica del singolo è inevitabile possiamo però da una parte creare qualcosa di più durevole, che ci sopravviva, e dall’altra elaborare dispositivi simbolici e riti comunitari che già ora rinviano ad una dimensione sovraindividuale e “immortale”. Il punto è che la nostra cultura laico-razionalistica è perlopiù sprovvista di tali dispositivi, e proprio nei momenti “solenni” dell’esistenza – nascita, vecchiaia, morte, ma anche la decisione di unirsi per sempre ad un’altra persona – ci lascia desolatamente soli. I funerali laici sono quasi sempre più tristi, anche se mettiamo come sottofondo i Beatles o De Andrè.
Non bisogna pensare ad una apertura indiscriminata all’irrazionalismo o all’attuale Kitsch esoterico. Se qualcuno cade in una depressione grave per un lutto, non si rinuncerà ad aiutarlo con una terapia o con l’uso di psicofarmaci. Ma esperienze come il pianto rituale, il lamento funebre, etc. sono appunto forme mitico-rituali che spesso si rivelano efficaci nell’elaborare la sofferenza. Il “mitico” non è la fase superata di una storia umana unilineare ma una dimensione che “l’Occidente avrebbe malamente repressa” (oggi il mito vive solo in forme degradate, come nel tifo calcistico). Non esiste un equivalente laico della preghiera, eppure qualche tempo fa, dopo aver appreso di un ictus occorso a un amico, sospeso tra vita e morte (poi si è salvato), non potevo fare altro – pur essendo ateo – che pregare! Carlo Levi sognava una società in cui potessero convivere i monachicchi (gnomi) del folklore lucano e i diritti civili, e guardava con attenzione al sapere mitico-arcaico capace di reintegrare la perdita della presenza e di difenderci dal nulla. La modernità auspicabile è plurale, fatta di molte voci, anche di quelle che vengono al mondo contadino. La ragione illuministica, cui pure dobbiamo attenerci, è continuamente sfidata a comprendere l’altro da sé, ad accettare il proprio limite.
Torniamo a de Martino, convinto che «l’uomo lotta contro la morte con l’arma del valore». Il suo è, nonostante la visione tragica di fondo, un ostinato pensare positivo: ogni apocalisse rimanda a un nuovo inizio, a una redenzione, ogni passaggio dell’esistenza, benché traumatico, contiene delle opportunità (come rivelano proprio i riti di passaggio). Si potrebbe solo obiettargli che il continuo rinvio alla progettualità nasconda una ulteriore alienazione. Il futuro non esiste. Come possiamo mettere il senso dell’esistenza in qualcosa di irreale? Va bene, progettarsi è inevitabile, ma bisognerebbe soprattutto vivere l’attimo presente, unico e irripetibile (l’unica eternità sperimentabile, diceva Severino Boezio, è la “plenitudo vitae”).
Ora, de Martino sembra oscillare tra progetto e adesione all’hic et nunc. In ogni caso per lui bisogna trascendere la mera individualità biologica, «nascere alla intersoggettività dei valori», a creare «opere di poesia e di scienza, di economia e di vita morale», e così “appaesarci” nel nostro mondo sublunare. Alla fine de Martino si rivela più vicino al marxista Cases di quanto poteva apparire. La salvezza viene anche per lui dal creare valore con gli altri: anche la peggiore catastrofe materiale nulla può contro «la permanenza che l’opera secondo valore fondò sulla roccia». Soltanto sapeva che più del sol dell’avvenire è decisivo anche un solo gesto, legato al momento presente e fondato sulla roccia (aiutare il compagno di viaggio a non naufragare), che sospende il tempo misurabile e ci porta in una eternità interiore.
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