Lo scaffale
“Il mestiere di mia madre”, romanzo d’esordio di Costanza Ghezzi
Fa sempre particolarmente piacere leggere un bel romanzo d’esordio. Questa opera prima di Costanza Ghezzi, “Il mestiere di mia madre” (Piemme), è una struggente storia tipicamente neorealista, una corda che la nostra letteratura da un po’ di tempo per lo più trascura, forse perché molti scrittori di oggi la considerano superata; come fosse non all’altezza della letteratura cosiddetta alta, la vivono come sfasata rispetto al nostro tempo. Invece no. Una storia come questa, che reca con sé qualche motivo morantiano, va benissimo anche oggi: ché le malefatte e le ingiustizie, ma anche la speranza e il riscatto, certo non sono roba del passato. E la realtà resta, c’è poco da fare.
La storia qui è quella di Lucetta, la madre, e di Flaminia, la figlia, che è la vera protagonista del romanzo. Attorno a loro una serie di figure scarne, senz’anima, per non dire di peggio: un’umanità di periferia, non solo nel senso letterale della parola ma in quello di “periferie dell’anima”, gente poco utile a sé e agli altri. Lucetta, giunta a Roma dalla Sicilia – la vicenda si svolge grossomodo nei primi anni Sessanta, anche se qui di boom economico non si vede nemmeno l’ombra – fa la puttana (il “mestiere” del titolo) e lo fa in modo, se così si può dire, freddo, distaccato, quasi “imprenditoriale”, sicché la sua esistenza è tutto un affrontare le difficoltà della vita con sfrontatezza, cinismo, una sorta di cattiveria ferina da piccola belva che si difende nella giungla di Roma e dei suoi paraggi (Tivoli, Acilia).
È una vittima, Lucetta? O è una cattiva persona? Chi siamo noi per dirlo, verrebbe da dire. Di certo è un personaggio forte, nel male certamente. Un male compiuto per fare in teoria del bene, portare due soldi a casa, fregandosene di ogni implicazione morale, sfornando marmocchi da padri sconosciuti, rubacchiando le misere paghe messe insieme dai figli, cambiando continuamente casa prima che le venga assegnato un alloggio popolare: a lavorare onestamente, Lucetta non ha mai pensato. Eccola percorrere con scaltrezza una strada piuttosto sporca nell’arrampicarsi sui pioli di una scala sociale inesistente.
Lucetta resterà sempre quello che ha scelto di essere fin da ragazza, in letti grigi e consumati, tra pranzi in ristoranti di terz’ordine e penosi regalucci di amanti di una notte. Questa “Cabiria”, a differenza della protagonista del film di Fellini, è meschina e arrogante nell’edificare un suo mondo per difendersi dalla miseria. Muove un po’ al disgusto e un po’ alla compassione, specie nell’ultimo tratto, ormai invecchiata e sola, tranne che per le visite di quella figlia diventata emancipata, Flaminia che era già “grande” da bambina, coraggiosa e indomita. Flaminia dentro di sé rimugina: «Che Lucetta non sia stata una buona madre di questo è sicura, forse madre non avrebbe dovuto esserlo affatto, ma a quante è data la possibilità di una scelta? E adesso sono ancora lì, loro due, a guardarsi negli occhi, a cercare un’intesa nello sprazzo di una litigata, a pensarsi a distanza quasi ogni giorno».
Neorealismo, dicevamo, ma neorealismo che parla da sé senza bisogno di mediazioni politiche e ideologiche, sarebbero superflue per capire le brutture di questa società: e giustamente Costanza Ghezzi evita quelle fastidiose lezioni morali che tanti scrittori sentono di dover tenere nei loro romanzi. La storia dice molto più dei discorsi.
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