Di ritorno dall’estero trovo nel frigo semi deserto una melanzana, un po’ di ricotta e del pomodoro; in giardino un vaso di basilico sopravvissuto al gran caldo. Poco ma sufficiente per cucinare degli spaghetti; ne viene fuori un piatto gustoso, economico, leggero ma con tutti i nutrienti necessari, digeribile ma appetitoso, un piatto povero come ce ne sono a decine nella nostra tradizione culinaria e alimentare in ogni regione d’Italia.

Già, i piatti cosiddetti “poveri”. Eppure qualche giorno fa non ho potuto fare altro che sussultare leggendo le ormai celeberrime dichiarazioni del Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che al Meeting di Rimini in un incontro su Food security e sostenibilità, dichiarava che “i poveri mangiano meglio di noi perché possono acquistare direttamente dai produttori a basso costo, comprando qualità”. Una frase tanto stonata quanto evidentemente non vera.

In questi ultimi anni, però, ho imparato a non cadere più nel tranello del commento a caldo di titoli sempre più sensazionalistici e spesso distorsivi della realtà sui vari media e così sono andata a cercare cosa in effetti Lollobrigida avesse detto e in quale contesto. Il Ministro – prima di pronunciare la frase “incriminata” – fa un paragone tra Italia e Stati Uniti spiegando che nel nostro Paese, grazie a una migliore educazione alimentare, mangiamo in maniera più sana degli americani; prova ne è, a suo dire, la più alta percentuale di persone in sovrappeso e di obesi negli Stati Uniti rispetto all’Italia. Sovrappeso e obesi che negli USA, ci dice, sono in gran parte concentrati nelle classi con disagio economico.

I dati italiani in realtà sono peggiori di quelli citati da Lollobrigida per avvalorare la sua tesi. Come si evince dall’ultimo rapporto dell’ISS: in sovrappeso in Italia quasi 43% della popolazione, di cui 10,4 sono obesi. Inoltre, come riporta il rapporto, “significativo il gradiente sociale dell’obesità con una quota di persone obese tra chi ha molte difficoltà economiche quasi doppia di quella osservata fra le persone più abbienti (16% contro il 9% nel 2021)”. Quindi, no, i poveri non mangiano meglio di “noi”. E non è perché non hanno accesso a cibi sani, magari “direttamente dai produttori” – cosa peraltro non così semplice nelle città – ma semplicemente perché la povertà non è mai soltanto economica: è educativa, culturale, relazionale, sociale. Basti pensare alla povertà minorile, e a quanto la chiusura delle mense scolastiche abbia rappresentato in negativo in termini di accesso al cibo nutriente e vario per molti minori nel nostro Paese. Una povertà purtroppo in crescita, secondo la Caritas in aumento del 12% nel 2022, di cui il 16% di soggetti senza dimora, ma circa il 20% di lavoratori poveri in un periodo storico in cui il potere d’acquisto è messo a dura prova da salari fermi e inflazione. Una realtà, quindi, molto più complessa come ben sanno le innumerevoli realtà del Terzo settore che con la loro azione preziosa sostengono migliaia di persone in difficoltà mettendo a disposizione pasti nelle mense, supermercati solidali, pacchi alimentari che spesso contengono anche suggerimenti per un’alimentazione corretta e cibi freschi recuperati giornalmente dagli esercizi commerciali. Soprattutto mettendo a disposizione una rete sociale e relazionale, un supporto di rapporti umani e di amicizia, senza il quale il solo sostegno economico o alimentare non potrebbe e non potrà mai cambiare la situazione di quelle persone che vengono assistite.

Un’iniziativa come quella recente della card “dedicata a te” pensata dal governo per sostenere persone in difficoltà alimentare è un esempio di come misure solo di supporto economico siano insufficienti. Monetizzare il bisogno è una via rapida, ma non sempre ottimale in termini di concreta presa in carico. Non solo è discutibile nella forma della misura e nell’identificazione della platea a cui è destinata, ma prima ancora è calata dall’alto senza coinvolgere i Comuni e tutti gli enti che sul territorio conoscono bene le necessità e i bisogni dei cittadini e che con loro condividono un percorso che comprende altri interventi e misure.

Cos’è allora il compito delle istituzioni, a tutti i livelli, dal governo agli enti locali? Prima di tutto conoscere il fenomeno rapportandosi in maniera stabile e strutturale con gli enti che sul territorio si occupano di povertà e disagio. Il terzo settore poi deve essere riconosciuto, fino a realizzare percorsi e azioni reali di coprogettazione e coprogrammazione che realizzino un approccio veramente sussidiario nell’ambito del quale pubblico e privato possano davvero collaborare alla realizzazione del bene comune. Molte esperienze sono già in atto in vari comuni e molte altre in via di realizzazione, e andrebbero sostenute maggiormente anche attraverso bandi e opportunità. Una forma di collaborazione che può essere un vero fattore di sviluppo davvero sostenibile per il territorio e per le persone in cui nascono e prosperano.

Nicoletta San Martino (Assessore alla Tutela Ambientale del Comune di Varese)

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