Il vero rischio per l’Italia non è la crisi, ma l’abitudine alla crisi. È questo, in definitiva, ciò che racconta il nuovo Rapporto Censis: un Paese che resiste così bene da aver smesso di crescere. Una resilienza che si è fatta struttura, non progetto. Il primo numero, il più duro, è quello del debito. Nel 2024 abbiamo speso 85,6 miliardi solo in interessi, pari al 3,9 per cento del Pil, più della Grecia e più di qualsiasi altro Paese europeo tranne l’Ungheria. È una cifra che supera gli investimenti pubblici, l’istruzione, la sanità ospedaliera. Una matematica tanto semplice quanto spietata: l’Italia paga il passato invece di costruire il futuro.

Questo trascinamento si riflette nella manifattura, entrata ormai in un autunno perenne. Trenta mesi consecutivi con l’indice di produzione in territorio negativo, salvo due rimbalzi episodici. Nel 2024 il settore è arretrato del 4,2 per cento; crollano il tessile, la meccanica, la metallurgia. È come se una parte del Paese industriale stesse scivolando silenziosamente oltre la linea d’orizzonte, senza scontri né clamore: semplicemente, smette di esserci. Il mercato del lavoro conferma la stessa traiettoria. La crescita degli occupati è quasi interamente dovuta agli over 50: negli ultimi tre anni 704.000 nuovi occupati su 833.000 arrivano da questa fascia. I giovani arretrano: meno 85.000 under 35 solo nei primi nove mesi del 2025, mentre gli inattivi crescono di 160.000 unità. È la fotografia di un Paese che lavora di più ma produce di meno. Il valore aggiunto per occupato scende, così come quello per ora lavorata. Non è una crisi, è un’inversione della logica economica.

Sul fronte dei consumi, l’apparente normalità nasconde una distorsione profonda: si spende di più per ottenere meno. Il carrello della spesa è aumentato del 23 per cento dal 2019 al 2024, mentre i volumi acquistati diminuiscono; i servizi finanziari crescono a doppia cifra, ma vengono utilizzati di meno. È un’economia che non accelera né frena, semplicemente si contrae nella percezione stessa del benessere.
Il tutto si innesta sulla grande radice della nostra epoca: la demografia. In vent’anni l’Italia ha perso oltre mezzo milione di imprenditori, e gli under 30 che guidano un’impresa sono crollati quasi della metà. Gli over 65 rappresentano già un quarto della popolazione e diventeranno un terzo entro il 2045. Una società che accumula età e perde vitalità economica fa esattamente ciò che fa oggi l’Italia: resiste, ma non cambia.
In questo scenario anche la politica economica si muove in spazi sempre più stretti. Le risorse europee e il Pnrr vengono spesso usate per coprire ritardi e buchi di bilancio, più che per creare nuova capacità produttiva. Il vincolo di finanza pubblica spinge verso interventi di corto respiro, bonus e sussidi mirati, più facili da raccontare ai cittadini, mentre restano in ombra le leve strutturali che servirebbero davvero alle imprese: tempi della giustizia civile, qualità delle infrastrutture, stabilità regolatoria, politica industriale capace di selezionare le filiere strategiche. Così il capitale pubblico si consuma in manutenzione e raramente in trasformazione.

Il Censis descrive un Paese che sta nel presente con disciplina quasi stoica. Gli italiani non scivolano nel vittimismo, non inseguono apocalissi, non cedono alla sfiducia totale. Non sono i clienti del “Grand Hotel Abisso”, sono quelli che, pur vedendo il baratro, apparecchiano la tavola ogni giorno. Ma questa forza, se resta solo forza di resistenza, diventa immobilità. La politica, da parte sua, continua a oscillare tra la promessa del cambiamento e la tentazione dell’ordine. E nel frattempo l’economia vive in una zona grigia: abbastanza stabile da non precipitare, troppo stanca per ripartire. L’Italia ha imparato a metabolizzare le crisi, ma non a trasformarle. La domanda, perciò, non è se l’Italia riuscirà a superare l’ennesima stagione difficile. Lo fa da decenni. La vera domanda è quanto ci costi, in opportunità, competitività, innovazione, essere diventati il Paese che sopravvive sempre ma non cambia mai. Perché la resilienza è una virtù. Ma quando diventa l’unico modello, rischia di assomigliare molto alla rinuncia.

Roberta De Sanctis

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