Il suo ultimo libro è uscito nei giorni in cui ha avuto inizio l’invasione russa dell’Ucraina. E letto alla luce dei drammatici eventi che stanno scuotendo l’Europa e allarmando il mondo, Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale (Guerini e Associati) di Achille Occhetto acquista una valenza ancor più stringente. Un pensiero, un manifesto politico, quello dell’ultimo segretario del Pci, che guarda al futuro. Perché a 86 anni, compiuti ieri, Occhetto non disarma e rilancia. Con una vivacità intellettuale e una passione politica che il tempo non ha corroso. Tutt’altro. Leggere per credere.
Il suo ultimo libro è uscito nel giorno dell’inizio della guerra in Ucraina. Un evento sconvolgente, nel cuore dell’Europa. Le chiedo: a fronte di questo sconvolgimento “Perché non basta dirsi democratici”?
È del tutto evidente che davanti alla vile aggressione di Putin, che si configura ormai come un vero criminale di guerra, è fondamentale non solo dirsi ma essere democratici. Il titolo del mio libro si riferisce a un tema di fondo, sempre valido, secondo cui se in una democrazia la libertà non coincide con l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, allora non basta più dirsi democratici. Questa visione non vuol dire indebolire la difesa della democrazia ma, al contrario, renderla più efficace nella lotta contro i populismi e le dittature. Ciò non toglie che contro l’aggressione russa ci deve essere la più vasta unità tra tutte le forze democratiche, di diversa ispirazione. Nello stesso tempo non possiamo nasconderci che siamo di fronte a una crisi della democrazia su scala planetaria, su cui continuare a riflettere. Le guerre non devono impedirci di pensare.
Nel riflettere sulle ragioni che l’hanno spinta a scrivere questo saggio così impegnativo, anche sul piano di una riflessione personale, lei ha confessato che il libro “è la mia elaborazione del lutto sulla fine del socialismo reale”. Di quel mondo la Russia è stato il centro, il dominus storico, identitario, politico e ideologico. In questa chiave di lettura, cosa ha rappresentato e rappresenta Vladimir Putin?
In realtà è molto di più della elaborazione del lutto, va considerato come il mio testamento spirituale e il compendio dei “fondamentali” per una sinistra all’altezza del nostro tempo. È anche un manifesto politico. Per questo ho ritenuto necessario impegnarmi sui temi identitari e sulla ridefinizione dei valori non negoziabili di una sinistra e di un centro-sinistra radicalmente rinnovati. Ed è proprio in conformità con tali valori fondamentali, da me rappresenti, che Putin si profila, ai miei occhi, come il dittatore di un paese capitalista, troppo spesso coccolato in Occidente, a dispetto del fatto che della storia precedente ha ereditato la visione staliniana delle sfere di influenza, della politica di potenza e i metodi repressivi del Kgb.
Nel libro lei “frequenta il futuro”. E fa un’affermazione che è anche una sfida ad una sinistra appiattita nella gestione dell’esistente: “È l’ora dell’ecosocialismo”.
Io identifico nell’ecosocialismo una nuova soggettività più articolata, attraverso una ridefinizione della contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro, che rimane, ma all’interno di una visione più ampia, intesa come contraddizione tra l’energia complessiva del lavoro materiale e intellettuale incorporato nella scienza e nella tecnologia e l’appropriazione privatista e incontrollata dei frutti dell’intelligenza sociale complessiva. È in questo contesto che si rende necessaria una sintesi alta tra questione sociale e questione ambientale nella direzione di un ecosocialismo che mi spinge a una ridefinizione di parole inflazionate come riformismo e libertà La sinistra, ridefinendosi, deve mettere in campo nuovi soggetti politici alternativi all’attuale modello di sviluppo, con il compito storico di collocare in un’unica prospettiva “ecologia, lavoro e società”.
Lei evoca una sinistra “mondialista”. In che cosa si differenzia da quell’internazionalismo proletario di comunistica memoria?
Oggi le forze potenziali che aspirano a una “società altra” sono molto più ampie e prendono coscienza della profonda ingiustizia che si produce se il patrimonio scientifico accumulato continua ad essere requisito da una parte minoritaria della società e dissipato in ordigni di morte e in un modello di sviluppo che sacrifica il bene comune. No. Quel patrimonio, in varie forme, va spalmato su tutto il genere umano.
Ma tutto questo è possibile pensarlo, in una situazione così drammatica?
Adesso è il momento di stare decisamente da una parte, quella della difesa della pace e della libertà contro il terrorismo bellico di Putin. La nuova unità dell’Europa davanti al pericolo è un tornante storico che va incontro al tipo di riforma della comunità europea e agli obiettivi di una governance mondiale ampiamente trattati nel mio saggio. Ma non possiamo dimenticare in quale mondo tutto questo orrore che stiamo vivendo è stato possibile. Non possiamo nasconderci che viviamo in un mondo dominato da vecchie logiche geopolitiche e disseminato di armi termonucleari. E questo nel momento in cui tutto il pianeta sarebbe chiamato a combattere unito i nemici, che non vengono da Marte, ma che lo minano dall’interno, attraverso una formidabile sinergia planetaria tra scienza e politica, come in parte sta avvenendo nelle missioni spaziali.
Gli ultimi G7 non si muovono in questa direzione?
Solo in parte. La politica internazionale degli Stati è ancora dominata da logiche geopolitiche che si muovono nella direzione opposta, che diventa il brodo di coltura di tutte le guerre. Lo vediamo ancora su temi, irrisolvibili sul terreno esclusivamente nazionale, come il riscaldamento globale, la raccapricciante voragine tra ricchi e poveri su scala internazionale, le migrazioni bibliche che attraversano il pianeta, la distribuzione dei vaccini, lo stesso impegno per democratizzare il cyberspazio e la lotta al riarmo. Lo stesso richiamo raccapricciante di Putin a ricorrere all’arma nucleare dovrebbe farci sospettare che non dovevamo abbandonare l’obiettivo della messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa, al di là della ipocrita avversione verso la loro mera proliferazione. Anche in considerazione del fatto che una effettiva democrazia mondiale non può fondarsi sulla differenza tra Paesi di serie A e Paesi di serie B. Tutto questo di cui sto parlando è nuovo mondialismo.
Una pace senza aggettivi ha qualcosa di insopportabilmente retorico. Parafrasando il titolo del suo libro, perché, di fronte alla guerra, quella in Ucraina ma anche alle tante “dimenticate” che pure marchiano i nostri tempi, “non basta dirsi pacifisti”?
C’è pacifismo e pacifismo. Sono stati criticabili, sia lo spirito di Monaco che quei pacifisti americani che non volevano che gli Usa entrassero in guerra contro la belva nazista, perché non capivano che era in gioco non solo la libertà, ma anche la suprema idea di pace tra i popoli. Non capivano che quella era una guerra difensiva contro l’aggressione al genere umano che non conosceva confini.
Ma allora che cosa rimane di fronte alle brutture della guerra che vediamo crescere ogni giorno… dello spirito pacifista?
La pietra miliare dell’autentico pacifismo è scolpita nell’articolo 11 della nostra Costituzione, là dove recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ripudiando così le attività belliche come strumento di offesa, ma non come mezzo di difesa. È con questo spirito che da tempo sostengo la necessità di una politica estera e di sicurezza comune. Ma attenzione: la violenza non deve contaminarci. L’Europa deve entrare come potenza continentale nel concerto delle nazioni con l’obiettivo di cambiare lo spirito angusto e irresponsabile che domina l’attuale geopolitica. Questo è il suo compito storico. Purtroppo sento spirare venti di regressione sia sul terreno ecologico che su quello della più generale difesa della pace.
Ascolto con un brivido nella schiena riaffiorare il vecchio detto latino che diceva che se vuoi la pace devi preparare la guerra. No, se vuoi la pace devi preparare la pace. Combattendo la nuova belva con grande fermezza. Con un solo limite: quello di evitare una terza guerra mondiale e di usare, con i necessari compromessi, tutti gli strumenti della diplomazia. E con l’impegno, successivamente, a lottare per il disarmo e per la messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa.
