Da tempo ormai le decisioni giudiziarie in tema di diffamazione stanno creano grande disorientamento. Se paragonare l’allora presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ad Adolf Hitler non è ‘antigiuridico’, criticare in maniera ironica, come fece Maurizio Costanzo, il giudice che non aveva disposto una misura restrittiva per l’ex fidanzato di Jessica Notaro, poi sfregiata da costui con l’acido, ha determinato la condanna del conduttore televisivo oltre al pagamento di una maxi provvisionale di 40mila euro.

Si è creata, in altre parole, una giurisprudenza quanto mai imprevedibile che rende difficilissimo ricondurre ad un ordine sistematico tali decisioni giudiziarie. E non è certamente un bel segnale. La discrezionalità del giudicante in questo ambito è massima e ciò determina, inevitabilmente, la crisi del sistema giustizia. Solo al giudice, ed alla sua valutazione e sensibilità, compete infatti acclarare se una dichiarazione rientri nell’alveo della libertà di espressione, della critica o della satira, o invece è idonea a ledere i diritti della personalità altrui, come l’onore e la reputazione. I criteri per assicurare, almeno sulla carta, una certa uniformità negli importi risarcitori da liquidare al danneggiato comunque ci sarebbero.

Al primo posto, in ordine di importanza, vi è la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Segue quindi l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore ed il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la sua diffusività sul territorio. Infine, vi è il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato e l’eventuale eco suscitata dalle notizie diffamatorie.

Una analisi di circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma è stata pubblicata su Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno acquisito, dopo essere state previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute, queste pronunce dalla banca dati del Tribunale della Capitale. In taluni casi però la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.
Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre quattrocento sentenze di rigetto, poi, tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel caso si tratti di magistrati, ed è questo l’aspetto che non può non suscitare sorpresa, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe. Difficile non pensare, considerato il differente esito processuale, all’esistenza di una “giustizia domestica” fra i magistrati per questo genere di cause: il giudice che decide sulla denuncia per diffamazione del collega sa che quest’ultimo un domani potrà fare altrettanto. Un magistrato, ex Pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione è riuscito ad imbastire oltre venti cause ottenendo un risarcimento complessivo di quasi seicentomila euro. Il convenuto è quasi sempre un mezzo di comunicazione di massa, quotidiano o programma televisivo, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La ricerca si è soffermata anche sulla presenza di non poche decisioni in cui la contesa ha riguardato persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Si tratta di un fenomeno in grande aumento nell’ultimo periodo. Tenendo conto delle regole sulla competenza territoriale, e quindi che i procedimenti analizzati hanno riguardato per la maggior parte vicende in cui l’editore aveva sede nella Capitale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi in quanto non riportano gli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora del luogo di residenza dell’attore. Sarebbe interessante una analisi di queste decisioni sull’interno territorio nazionale. “In estrema sintesi si può affermare che tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione”, sottolinea sconsolato il professor Sammarco, ricordano che in molti casi scatta anche la condanna alle spese. Della serie, oltre il danno la beffa. Altro dunque che certezza del diritto: in questo caso siamo veramente nell’ambito della cabala.