Quando abbiamo incontrato, tra le pagine della letteratura, Giovanni Pascoli e il suo “fanciullino”, ci siamo sentiti rassicurati. Quella creatura interiore non appariva come il segno di una regressione, bensì come la promessa di una sorgente di purezza capace di illuminare la vita adulta, di renderla meno inaridita dal peso della quotidianità. Ma se quell’immagine poetica viene esasperata  il suo incanto rischia di svanire, trasformandosi in una caricatura: non più un’innocenza da custodire, ma una “bambinizzazione” diffusa che si manifesta nella vita sociale, nei consumi, nei linguaggi così come nelle forme culturali. E allora viene da chiederci: non stiamo forse confondendo il fanciullino che custodisce lo stupore con un eterno bambino che rifiuta di crescere?

Viviamo in quella che i sociologi hanno definito una società “post-mortale”, ossessionata dall’idea di fermare il tempo, di tentare l’impossibile: riportare indietro le lancette dell’età. Non è più un desiderio di conservare la vitalità giovanile; prevale, piuttosto, un’ostinata resistenza a diventare adulti, come se la maturità fosse una condanna e la responsabilità un fardello insopportabile. Per dirla con la letteratura, potremmo spostarci da Pascoli a Collodi: il “Lucignolo” di Pinocchio, a suo agio nella notte del Paese dei Balocchi, si ritrova all’alba trasformato in asino. Tutto quadra, no?

Pensiamo, infatti, alla cronaca più recente: segnali che, per quanto bizzarri, raccontano molto della nostra epoca. Emblematico, in tal senso, è il fenomeno del “ciuccio per adulti”, nato in Brasile come gadget anti-stress e divenuto virale su TikTok e Instagram. Non è un gioco per pochi eccentrici influencer e celebrità (Neymar o Justin Bieber lo hanno esibito pubblicamente, trasformando una tettarella colorata in un accessorio pop da mostrare a milioni di follower) ma una moda da imitazione, fino a fare del ciuccio un linguaggio comune, un simbolo condiviso di un’infanzia mai archiviata. Per non parlare della travolgente ascesa (soprattutto economica) di Labubu, creatura dagli occhi spalancati e dalle proporzioni volutamente infantili, che da semplice pupazzo da collezione è assurta in breve tempo a feticcio globale: bene quotato, oggetto di culto, icona pop capace di generare file davanti ai negozi e aste online con cifre astronomiche. Labubu incarna un intero immaginario che celebra la puerilità come cifra estetica e commerciale, un mondo in cui l’essere adulto coincide sempre più con il rifugiarsi in un’infanzia artificiale  una fuga dal tempo (grave) presente. Tutti felici i clienti (molti dei quali over 20) all’uscita dello store eppure mi sembrava sentire un sotto-pensiero subliminale del tipo “non sono adeguato al tempo presente e quindi lasciatemi ciucciare”

Questi esempi non possono essere liquidati come eccentricità folkloristiche: sono, invece,  indizi di un processo culturale più profondo, dove il mercato intercetta e amplifica un bisogno regressivo, offrendo oggetti e simboli che alimentano la nostalgia di un’infanzia senza fine, trasformandola in consumo e identità condivisa. Eppure questo infantilismo di massa convive con una realtà paradossale in ambito educativo:  un adulto su tre in Italia fatica con lettura e calcolo, segno di un analfabetismo funzionale che priva di strumenti critici proprio chi rifiuta la maturità. Così la “bambinizzazione” non si riduce a un gioco innocente ma diventa piuttosto una fuga dalla complessità del reale, un rifiuto di aprire nuove prospettive. 

Pensiamo all’appello evangelico di Gesù quando afferma «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli». Un apparente non-senso che non invita certo alla regressione quanto piuttosto a un ritorno radicale alla verità della filiazione. Il paradosso evangelico esalta, per la verità, quella capacità di restare figli: aperti al futuro, fiduciosi, consapevoli di ricevere la vita come dono. Hans Urs von Balthasar lo ha spiegato con chiarezza in una sua meditazione prima di morire nel 1988: Quel bambino evangelico è colui che, pur crescendo, non smette di legarsi al padre nel suo essere figlio senza  mai sottrarsi al proprio progetto esistenziale. Rimanere bambino in questo senso: essere totalmente Figlio e, insieme,  totalmente libero, creativo e maturo nella sua missione.  Il rischio del nostro tempo è invece l’opposto: una società che, nel tentativo di restare eternamente giovane, dimentica la responsabilità e smarrisce il senso autentico del fanciullino. La grandezza dell’immagine pascoliana, come della parola evangelica, sta proprio nel custodire lo stupore senza rinunciare alla maturità, nell’abitare la vita adulta senza recidere la radice infantile che ci lega alla verità dell’essere figli. 

Ecco dunque la sfida più urgente: ritrovare un equilibrio tra stupore e responsabilità, tra freschezza dello sguardo e coscienza adulta. Perché l’infanzia, se non si trasfigura in maturità, rischia di diventare soltanto una gabbia dorata, un sogno che imprigiona invece di liberare.

E chissà che non valga la pena ricordare, con un filo di amaro sarcasmo, che in non pochi dialetti meridionali la parola “ciuccio” non indica soltanto la tettarella, ma evoca lo sciocco, l’ingenuo, l’incapace: “ciucce” in Puglia o “scecco” in Sicilia. Un destino linguistico che sembra anticipare, purtroppo per noi, i tratti della nostra epoca. Non è forse suggestivo che le inflessioni della lingua, con la loro sapienza antica e popolare, abbiano già colto ciò che oggi fatichiamo ad ammettere?

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"l’occhio vede, la mente ordina, ma è il discernimento a stabilire il senso"