Come vivono i ragazzi del mondo l’interruzione didattica causata dal Coronavirus? E quali conseguenze sociali sta comportando, su scala planetaria, la famigerata pandemia? Leggere la lettera che Isaac Lozano, diciottenne di San Diego all’ultimo anno di scuola media superiore, ha spedito al New York Times, che l’ha pubblicata con ogni evidenza, può aiutarci a capirlo. Scorrere il testo composto da questo liceale intimamente ferito è come guardare le cascate: l’acqua continuerà ad ingrossare il fiume, per nostra fortuna, non si fermerà mai. Ho sempre pensato che in ogni generazione ci siano dei giovani nascosti i quali portano i pesi per tutti gli altri: Isaac mi sembra uno di loro.
Cos’ha fatto? Niente di speciale. Eppure il modo in cui racconta l’esperienza del confinamento apre, incredibilmente, nuovi orizzonti.
«Soy un estudiante de bajos recursos en un apartamento lleno de gente y mi familia es vulnerable a la Covid-19».
Uno studente di scarse risorse… Si presenta così: bravo a scuola, consapevole dei rischi capitali che sta correndo. Due suoi parenti sono morti a causa del virus. Il ragazzo abita insieme alla famiglia di cinque persone in uno dei quartieri più malfamati della città, non distante dal confine messicano: là dove il sogno americano, non da oggi, per i più poveri rischia di trasformarsi in un incubo. I genitori sono immigrati, entrambi lavorano. Sappiamo che negli Stati Uniti chi non possiede un’assicurazione medica di buon livello, specie in questo momento, è destinato al massacro.
Stando alle cifre diffuse da Anthony Fauci, il virologo della Casa Bianca, le vittime della pandemia negli Stati Uniti potrebbero essere più di duecentomila. Quando critichiamo, anche giustamente, i nostri sistemi di assistenza medica, dovremmo sempre tenerlo a mente.
Abbiamo ancora negli occhi i parcheggi di Las Vegas, liberati per lasciar posto ai vagabondi senza fissa dimora. Il collasso sanitario della nazione più ricca del mondo pare innegabile. A farne le spese è soprattutto la gente di colore e gli ispanici, come Isaac, il quale teme per la madre, che sta uscendo da un tumore, specie quando lei porta i panni alla lavanderia comune frequentata da tutti. Quel condominio, lo immaginiamo, è un porto di mare. Il distanziamento rappresenta una chimera.
L’infezione potrebbe attaccare le già scarse difese immunitarie della donna. Eppure il ragazzo, tenace e volitivo, continua a studiare. A distanza, col computer, anche se la rete Wifi è quella che è. Va e viene. Il modo in cui descrive le sue giornate ti fa capire tutta la ferocia del cosiddetto “digital divide”.
Mentre certi compagni di classe più fortunati, appartenenti alle classi benestanti, possono disporre di ampi salotti comodi con divani e schermi perfettamente attrezzati, lui è costretto a barcamenarsi di mattina nella cucina risicata e il pomeriggio nella camera da letto dei genitori.
Tuttavia non perde la fiducia e mantiene una notevole lucidità: «La educación a distancia es difícil. Pero que se mueran tus familiares es peor». Dovremmo imparare qualcosa dal suo pragmatismo noi che litighiamo sulle discoteche da tenere aperte o chiuse.
Questo studente, che vanta ottimi voti in inglese ma non rinuncia a scrivere nello spagnolo, sua lingua materna, rappresenta la risposta più convincente alla noncurante prosopopea di Trump e compagni. Egli pare amaramente consapevole che il suo buon profitto scolastico, che in altri tempi gli avrebbe assicurato il futuro, nei prossimi mesi non sarà più sufficiente a garantirgli alcunché. Gli ambienti in cui è stato rintanato negli scorsi mesi non sono poi molto diversi dagli stanzoni di certe periferie italiane.
Da noi quelli come Isaac si chiamano Mohamed e abitano, quando va bene, nei centri di pronta accoglienza; oppure, più semplicemente, Ninuccio, che è di casa a Ponticelli, nel grande agglomerato partenopeo, o Romoletto, che bazzica a Tor Tre Teste, negli antri della capitale italiana. Da marzo questi adolescenti hanno di fatto abbandonato la scuola che peraltro già frequentavano di malavoglia.
E chissà se la riprenderanno fra qualche settimana. Isaac, rispetto a loro, mostra un atteggiamento diverso, dalla cui forza propositiva ci sarebbe da prendere esempio: non dividerci secondo schemi ideologici precostituiti, bensì affrontare la situazione, in costante evoluzione, col giusto pragmatismo. In realtà nessuno di noi, nonostante i ricorrenti dibattiti sulla riapertura degli istituti scolastici, sa cosa potrà accadere in autunno. Isaac afferma di non voler tornare ad ogni costo all’istruzione in presenza: finché ci saranno rischi, dice, lui preferirà continuare a studiare a casa, in sicurezza, pur sapendo che ciò gli costerà molto: dovrà tirare fuori i ragni dal buco, arrangiandosi come può, del resto lo ha già fatto, in attesa del tanto sospirato vaccino.
E poi, ammesso e non concesso che il medicinale giunga in tempo utile, ce ne sarà davvero per tutti? Di sicuro, se si dovranno fare le parti, i Lozano saranno gli ultimi a riceverlo. Eppure questo studente figlio di immigrati, cittadino del nuovo mondo, non si darà certo per vinto: oggi è lui Martin Eden di Jack London.