Quando ero un giovane cronista dell’Unità, ogni settimana contavamo i morti. Erano gli anni settanta, e poi gli anni ottanta: l’Italia era un luogo molto pericoloso. La lotta armata e il terrorismo nero, o di stato, in meno di un decennio uccisero circa 2.000 persone, e lasciarono migliaia di feriti. La mafia alternava periodi di lotta interna, sanguinosissima, con le offensive contro lo Stato. I caduti erano soprattutto poliziotti, magistrati, politici, giornalisti. Nelle stragi dinamitarde invece moriva la gente comune. La violenza era uno degli elementi costanti nella vita civile. Le fonti della violenza erano le più diverse, ma soprattutto erano due: la malavita e la politica.

La malavita usava la violenza, il delitto, l’uccisione, il sequestro di persona, come strumenti basilari della propria attività. Lo faceva anche la politica, soprattutto nelle sue frange giovanili ma anche oltre. Non abbiamo mai saputo bene in quali e quanti delitti fossero implicati in qualche modo i partiti (un po’ tutti i partiti, tranne forse il partito socialista) dai giorni immediatamente successivi alla Liberazione (la strage di Portella della Ginestra è del 1947) fino alla fine della prima Repubblica. Però sappiamo che l’uso della violenza, fino all’assassinio, come strumento di battaglia, non era considerato il massimo dell’aberrazione morale. In larghe fasce del ceto politico, soprattutto, è chiaro, in quello extra parlamentare, il delitto era un mezzo come gli altri: illegale ma non immorale.

Scrivo queste cose, sulla base non di un attento studio ma semplicemente del ricordo di un testimone attivo dell’epoca. Ricordo anche personalmente le complicazioni della vita di tutti i giorni in quell’epoca, ad esempio per un giornalista politico schierato. C’erano quartieri di Roma dove non si poteva passare, cioè non poteva passare un giornalista dell’Unità. In altri quartieri, parecchi, non poteva avventurarsi un volto appena un po’ noto dell’estrema destra, o un deputato del Msi, o un giornalista del “Secolo”.

A San Lorenzo, a Trastevere, a Portico d’Ottavia. E scrivo queste cose per spiegare a chi è troppo giovane per averle vissute, quanto sia cambiato il senso comune, da allora. Negli anni ottanta e alla fine dei settanta, c’erano circa 2000 morti assassinati all’anno, in Italia. Tra vittime della criminalità e della lotta politica. Oggi gli assassini sono poco più di duecento, dei quali più della metà sono donne uccise dal marito, o dall’amante, o da un parente. Nella lotta politica la violenza fisica è scomparsa. Anche nella mala si è ridotta moltissimo. Persino la mafia uccide poco. È finita anche la terribile stagione dei sequestri di persona, che negli anni ottanta aveva terrorizzato soprattutto la Calabria.

E vero, c’è la politica dell’odio. Del linguaggio scurrile, aggressivo, anche violento. Spesso calunnioso. Alimentata, tra l’altro, dai social. E che ha fatto breccia nei giornali, che vent’anni fa erano il regno della sobrietà. Bisogna opporsi a questo modo incivile di affermare o difendere le proprie opinioni o la propria appartenenza. Però bisogna anche sapere che tra la violenza verbale e la violenza fisica c’è un abisso. Tra le persone che io frequentavo da ragazzo, ce ne sono almeno una decina che nel tempo sono state protagoniste di agguati, ferimenti, e anche uccisioni. Tra le persone che frequentano i miei figli, nessuna.

Facevo queste riflessioni, l’altra sera, quando ho saputo che Antonio Caridi, ex senatore calabrese, era stato assolto con formula piena da accuse infamanti di mafiosità. Cosa c’entra la vicenda di Caridi con il mio ragionamento sulla violenza? Forse qualcosa c’entra. Provo a spiegarmi.

Caridi è una bravissima persona, che ha fatto politica onestamente per molti anni, ha raggiunto nel 2013 il Senato dove si è comportato per qualche anno con onore, poi un bel giorno del 2016 hanno bussato alla porta di casa sua e lo hanno avvertito che i Pm sostenevano che lui fosse un membro della cupola della ‘ndrangheta: forse il capo. E gli hanno detto che avrebbero chiesto al Senato il permesso di arrestarlo. Caridi non capiva, non riusciva a rendersi conto della follia di queste accuse cervellotiche. La richiesta di arresto arrivò in Senato e fu accolta in quarantotto ore. Caridi prima del voto finale pronunciò un discorso intenso e anche commovente. Il Pd, i 5 Stelle e la Lega lo condannarono senza nemmeno aver letto le carte. Dopo il voto Caridi prese la valigetta che aveva preparato e si presentò ai cancelli di Rebibbia.

Lo hanno tenuto sequestrato in prigione per diciotto mesi. Senza indizi, senza rischi di fuga, senza rischi di inquinamento delle prove (anche perché le prove non c’erano) senza il pericolo che ripetesse il delitto che non aveva commesso. la cassazione per due volte chiese che fosse scarcerato, perché verificò che non c’erano indizi di colpevolezza. i Pm insistettero. Alla fine dovettero arrendersi, perché la cassazione tenne duro.

Ho sbagliato a scrivere “sequestrato”? Non mi pare. Ho visto recentemente che Salvini è stato formalmente accusato di sequestro di persona, in qualità di ministro, per avere impedito per una decina di giorni lo sbarco di alcuni migranti. Non vedo perché non dovrei parlare di sequestro di persona se dei magistrati rinchiudono in una cella un innocente (riconosciuto innocente) pur non avendo indizi contro di lui, e ce lo tengono 18 mesi. Diciamo che questa volta il sequestrato è stato un senatore, e i complici dei sequestratori sono stati la maggioranza dei senatori che non hanno interrotto il tentativo di sequestro mentre potevano farlo. Questo forse, però, rende più gravi le cose.

È l’affare Caridi che mi ha suggerito questa riflessione. La violenza come strumento di realizzazione della propria attività -sparita dalle pieghe della società civile – è rimasta solo in alcune parti dello Stato. Settori della magistratura e talvolta – molto più raramente – anche della polizia (vedi il pestaggio a santa Maria Capua Vetere) sono gli unici ad esercitarla con una certa continuità…

Non penso che sarebbero necessarie delle indagini su questi episodi e su ,moltissimi altri che avvengono quasi tutti i giorni. Del resto chi potrebbe indagare sulle violenze della magistratura, se non la magistratura? Penso però che sarebbe interessante se l’opinione pubblica, e gli intellettuali – quelli che ancora non sono stati fulminati dal grillismo dilagante – tentassero una riflessione su questo. Cosa succede in una società sostanzialmente non violenta nella quale esiste però un potere dello Stato (anzi: una parte circoscritta ma potentissima di un potere dello stato) che esercita con noncuranza, e anche – va detto perché è così – con spirito e senso del dovere, la violenza? Quali squilibri si creano? Quanti danni allo stato di diritto e al senso generale della Giustizia?

Vi giuro, faccio queste domande con serenità. Senza eccessivo spirito polemico. Mi piacerebbe se qualche magistrato, con altrettanta serenità, rispondesse. La risposta giusta è che non c’è alternativa? Che un certo grado di sopraffazione è necessario per far funzionare la giustizia? Io non ci credo.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.