O succedono tutte a me, oppure, ed è l’ipotesi più aderente alla realtà, l’informazione giudiziaria continua a dare pessima prova di indipendenza e neutralità rispetto alle Procure impegnate in processi “epocali”, ogni qualvolta gliene si offre l’occasione. Anni fa raccontai ai lettori di questo giornale che al momento della lettura, in primo grado, del dispositivo della sentenza Mafia capitale, i cronisti della Rai erano talmente immedesimati nel ruolo di apologeti della Procura di Pignatone, che diedero in diretta radio la notizia, non vera, che il Tribunale aveva riconosciuto la natura mafiosa della associazione, salvo poi correggersi in corsa, stile tutto il calcio minuto per minuto, senza mai ammettere di non aver neppure compreso il dispositivo letto dal presidente, che era chiarissimo.

Il fatto è che, di fronte a certi processi, propagandati come svolte storiche da parte delle Procure a schiere di giornalisti pronti ad abbeverarsi al verbo, anche quando si rompono le uova nel paniere, cioè quando qualche “emblematico” imputato viene assolto, oppure quando un tribunale smentisce una teoria riassunta enfaticamente dal titolo della indagine, allora la quasi totalità dei media italiani scopre la voluttà della informazione d’un tempo molto risalente, più o meno quando le veline delle questure costituivano la dorsale della cronaca giudiziaria.

Di Mafia Capitale s’è detto l’inizio, ma non è che la conclusione sia stata di minor significato. Dopo che la Cassazione, annullando senza rinvio sul punto della natura non mafiosa della faccenda, aveva bollato la lettura della Procura romana alla stregua di una avventura interpretativa, la quasi totalità dei media italiani si inchinarono ob torto collo alla sconfitta dichiarando che, in ogni caso, c’erano state le condanne per corruzione e dunque giustizia era stata fatta. Più o meno quello che, in perfetto stile Miniculpop, avevano appena dichiarato i pm romani. Gli stessi che per quattro anni avevano inneggiato, assieme ai loro laudatores a mezzo stampa specializzati in lotta alle mafie, alla formidabile scoperta della mafia romana. Anche allora, dopo che tutti i media nazionali s’erano scordati di dare la notizia di qualche imputato assolto dopo anni di carcerazione preventiva, scrissi qui su quanto poco seria fosse l’informazione giudiziaria, che delle vittime degli errori giudiziari parla solo a cose fatte, e in qualche caso mai.

Fu così che quando, un anno fa, un mio amico caro fu assolto – dopo un’altra impennata creativa della Procura di Roma che aveva partorito una accusa gravissima per un avvocato ma talmente sballata che alla fine del processo persino il pm aveva chiesto l’assoluzione – di fronte al solito silenzio della stampa, se non di regime almeno irreggimentata, sempre dalle colonne di questo giornale chiesi pubblicamente se non fosse arrivata l’ora di una legge che obbligasse i media che avevano pubblicato la notizia sfavorevole per un cittadino del suo coinvolgimento in una vicenda penale, a dare con la stessa enfasi, e lo stesso spazio, la notizia dell’eventuale esito favorevole. Una legge che – tanto per rendere pan per pariglia rispetto alle fantasiose intitolazioni delle indagini scelte dagli inquirenti in italo-english oppure traendole dai titoli dei film che poi vengono rilanciati in quelli dei giornali – potremmo chiamare “Ridatemi la dignità”.

Eh sì, perché di fronte ad un complesso informativo giudiziario che rispetto alle Procure, in particolare a certe Procure, più che il cane da guardia della democrazia sembra il barboncino di casa, ci vuole qualcosa che obblighi la stampa a fare il suo mestiere: cioè dare informazioni corrette, complete ed aggiornate.

Ed ecco l’ultimo caso, anche di questo sono testimone privilegiato. A Reggio Calabria il Tribunale assolve un ex senatore che, proprio per l’accusa per la quale il Tribunale lo assolve, a suo tempo, cioè cinque anni fa, era stato sommariamente giudicato in Parlamento quando era stato concessa l’autorizzazione all’arresto, poi imprigionato per un anno e mezzo e liberato solo dopo due consecutivi annullamenti in Cassazione.

Un caso, senza dubbio, che infatti al momento dell’arresto interessò molto i media, locali e nazionali, anche perché l’accusa era terribile, ben al di là delle commistioni tra mafia e politica. Il senatore in questione, infatti, veniva indicato come membro di una sorta di direzione strategico-politica della Ndrangheta, anzi il Gotha della Ndrangheta, da cui – ca va sans dire – il nome della inchiesta: Gotha, appunto.

A rileggere le cronache dell’epoca di nuovo una inchiesta epocale, pronta a rinverdire, secondo alcuni apologeti della stampa, i fasti (?) del Processo Trattativa se non, addirittura, quelli del primo processo a Cosa Nostra, absit iniuria verbis. Impressionati dal clamore mediatico della vicenda i senatori – in testa quelli renziani, sia detto per inciso, dai quali ci si attende un qualche cenno di vergogna postuma ora che si sono convertiti al verbo garantista – senza impiegare in commissione nemmeno il minimo tempo materiale sufficiente a leggere le carte che erano arrivate, decisero di autorizzare l’arresto. Seguì dibattito in aula in cui si distinsero, per aggressività e volgarità dei toni e degli argomenti, alcuni senatori che ancora siedono in Parlamento. Chi ha interesse può andare a risentirli ma in fondo sarebbe un esercizio un po’ masochista verificare a che livello ci siamo ridotti quanto ad eletti.

Fu così che il senatore in questione, Antonio Caridi, uscì da Palazzo Madama passando per i sotterranei, per sfuggire alla muta dei cronisti giudiziari che non gli pareva vero registrare l’arresto in diretta, un piede dentro e uno fuori dal Senato, di un parlamentare, e quello stesso pomeriggio si presentò a Rebibbia. Nonostante l’odor di sangue e il tifo scatenato della stampa nazionale e locale, che non dedicò neppure un rigo a quanto detto dal parlamentare nel suo intervento in aula, tra cui il piccolo particolare che per essere un componente del Gotha risultava strano che non gli si contestasse nessun fatto specifico se non, in venti anni di carriera politica, tre, dico tre, assunzioni, peraltro di persone che non risultavano appartenenti a clan. Solo che da lì a qualche mese la scena iniziò a mutare.

La Cassazione, che per i giornalisti italiani quando annulla una condanna lascia “irrisolto” o “impunito” il caso e quando la conferma “fa giustizia”, annullò l’ordinanza del Riesame di Reggio Calabria che aveva confermato quella cautelare emessa dal Gip. La vicenda fu quindi rivalutata dallo stesso Tribunale del Riesame che confermò di nuovo, e ancora una volta annullata dalla Cassazione. Solo alla terza valutazione il Riesame reggino scarcerò l’imputato, nel frattempo Antonio Caridi era stato in carcere 18 mesi, da innocente.

Nello stesso periodo, ovviamente, il suo onore, quello che deve contraddistinguere l’operato di un parlamentare, era stato maciullato ancora di più. Inutile dire, infatti, che tranne alcune rarissime eccezioni, raccolte nelle notizie brevi che più brevi non si può, le decisioni favorevoli della Cassazione, nonostante i puntigliosi comunicati stampa della difesa, erano passate sotto silenzio stampa nei casi migliori, oppure commentate in senso sfavorevole, col cappello in mano, da volenterosi ausiliari a mezzo stampa della Procura, per lo più locali. Neppure la notizia che uno dei principali accusatori era stato sbugiardato, posto che aveva collocato un incontro incriminante avvenuto in un ristorante nel periodo in cui uno dei partecipi era ristretto nelle patrie galere, solleticò l’interesse delle cronache giudiziarie.

Arrivò il processo, e le cronache, in genere quelle locali, furono più frequenti ma, evidentemente, i cronisti stavano al bagno o al bar quando alcuni dei collaboratori di giustizia, compreso quello di prima, vennero contro esaminati, perché delle loro colossali figure barbine sui media non troverete nulla. E non è una novità, in genere il pastone sulle udienze, che siano presenti in aula o meno, molti cronisti giudiziari italiani se lo fanno fare direttamente dai pm o dagli investigatori. Nel già citato processo Mafia Capitale, per risparmiare tempo, invece che quello che un testimone aveva detto in aula veniva riportato direttamente quello che aveva riferito in questura, anni prima, interrogato dalla polizia. Come se il processo non esistesse.

Arriviamo all’epilogo anche di questa vicenda giudiziaria, il 30 Luglio, alle nove di sera, il Tribunale esce e rigetta la richiesta di condanna per l’(ex) senatore Caridi: assolto perché il fatto non sussiste nonostante i venti anni di carcere chiesti dai Pm.

Tutto è bene quel che finisce bene, almeno per ora visto che i Pm già preannunciano appello, e ti aspetti che la notizia di un senatore cacciato a calci dal Senato poiché ritenuto uno dei capi della ‘ndrangheta e poi assolto, non solo finisca sulle prime pagine di quei giornali che all’epoca del suo arresto avevano ospitato cronache e commenti, ma dia a qualche commentatore pensante l’occasione per riflettere su temi importanti. Senza elencare in ordine di importanza: il sempre più problematico rapporto politica-giustizia; la sommarietà delle autorizzazioni agli arresti che si risolvono in una giustizia politica ancor più incivile di quella vera; il rapporto giustizia-informazione; la vera natura della custodia cautelare quale (incostituzionale) anticipazione di pena, mai veramente risarcibile per un innocente nonostante il record di milioni che spendiamo per indennizzare l’ingiusta detenzione in alcune sedi giudiziarie, tra le quali quelle più celebrate e presenti sui media, che vantano poco invidiabili record nazionali; e via discorrendo.

Invece no, qualcuno di quelli che aveva messo in prima pagina la notizia dell’arresto, il Corriere della Sera tanto per non fare nomi, non pubblica neppure una riga; qualcuno la riporta in una riga per decenza ma annegandola in un mare di imprecisioni in articoli che celebrano il trionfo della ipotesi accusatoria; qualcun altro fa anche peggio, come La Repubblica, che nel malcelato tentativo di minimizzare la debacle, per la posizione Caridi scrive che doveva rispondere solo di “concorso esterno”, come a dire che in fondo la topica accusatoria se c’è stata è veniale. Peccato per la cronista giudiziaria che l’ha scritto che non è vero niente: di concorso esterno parla il dispositivo della sentenza, ma solo per segnalare che persino la contestazione per quell’imputato era sbagliata. Per il Tribunale, secondo la stessa descrizione dei fatti proveniente dall’accusa, Caridi avrebbe dovuto rispondere di concorso esterno, altro che Gotha; ma anche da quel reato lì deve essere assolto con la formula più liberatoria che il codice conosca. Del resto pretendere equidistanza da una cronista che, prima di scrivere le cronache “imparziali”, è stata sentita come testimone d’accusa in aula nello stesso processo, sarebbe un po’ troppo.

Vi risparmio il resto, che consiste in un profluvio di articoli che inneggiano al fatto che la teoria accusatoria è stata confermata, che il Gotha individuato è debellato, visto che altri imputati sono stati condannati. Come se l’assoluzione di un senatore, e di un ex funzionario comunale, fossero particolari insignificanti. Ma soprattutto se uno andasse a leggere il dispositivo – a condizione di saperlo fare, naturalmente (ve li ricordate quelli della Rai ?) – scoprirebbe che il trionfo del Gotha è ancora da stabilire, visto che il Tribunale ha derubricato alcune contestazioni, ridimensionato molti fatti, e in definitiva condannato solo due imputati per l’ipotesi originaria. Due imputati, un Gotha light, parrebbe. Forse, prima di far passare il carro della Procura sotto l’arco di Traiano bisognerebbe almeno verificare le motivazioni della sentenza che saranno depositate tra qualche mese; almeno questo uno se lo dovrebbe aspettare dalla stampa rispettosa dei fatti. Quaranta anni fa i cronisti giudiziari facevano così, leggevano le sentenze.

Insomma, quando c’è di mezzo la mafia, la politica (o tutte due), certe Procure e alcune sedi giudiziarie in particolare, l’ informazione libera, corretta, equidistante non è roba italiana: la regola è l’informazione di guerra, embedded.

E allora, ribadisco, bisogna stabilire per legge l’obbligo di “ridare la dignità” a chi l’ha ingiustamente persa a mezzo stampa.

Resta un ultima considerazione, personale. “Questo scrive sempre le stesse cose, ce l’ha con la stampa, e racconta delle vicende che accadono nei processi in cui difende, che però non sono la regola” starà pensando qualcuno che ha avuto la bontà di leggere fin qui. Forse è vero, però mi permetto di avanzare una ipotesi alternativa: non sarà che, per caso, sono solo uno di quei pochi, anche tra i miei colleghi, che non ha timore a raccontare le debolezze della gloriosa stampa nazionale per non inimicarsela? A voi il dubbio, io non ce l’ho.