Chicco & Claudio
La corrispondenza
La vita nelle sezioni del PCI, dibattiti e speranze di uomini e donne per bene, con i capelli corti
2 – Operai, imbianchini, insegnanti: persone normali con ideali condivisi, riunite nelle sedi del partito. Quando la politica era un luogo di confronto costruttivo (anche se gli scontri non mancavano…)
Caro Claudio, la sezione del PCI ho cominciato a frequentarla nell’autunno del 72. Ma pensa un po’: nella primavera di quell’anno, in quella campagna elettorale, il cui risultato diede poi vita all’unico governo di centro destra (fino ad oggi) della Repubblica, anche io come tuo padre feci campagna per Valpreda, capolista della lista del Manifesto. Risultato: 226.000 voti, pari allo 0,67%. Nessun eletto. Una batosta. Non so come reagì tuo padre…per me fu la prima di tante lezioni di realismo che mi sono toccate. Ma in quell’autunno del ‘72 si aprì una nuova sezione nel Centro Storico di Milano, proprio sotto casa mia, nel quartiere di Porta Romana.
Mi iscrissi, dopo aver scoperto che i militanti del PCI non erano personaggi alieni, ma gente normale animata da buoni ideali. Una bella sezione proprio sotto casa e con una composizione interessante. Abitanti del centro storico di Milano, ma anche diverse “cellule” in luoghi di lavoro. La Ras assicurazioni, il Policlinico, la clinica Mangiagalli, allora all’avanguardia nelle cure ginecologiche, la Mondadori che non si era ancora trasferita nel bell’edificio progettato dalle parti dell’Idroscalo da Niemeyer, l’architetto brasiliano progettista di Brasilia e comunista militante ed entusiasta. Ottenne anche il premio Lenin, ma evidentemente ai Mondadori interessavano solo le sue indubbie capacità.Il centro storico di Milano non era ancora stato “gentrificato”. Antichi stabili padronali e nobiliari convivevano con case di ringhiera dove i bagni stavano appunto in fondo al ballatoio che costeggiava i piccoli appartamenti. Sono tornato varie volte in quella via Orti dove aveva sede la sezione, e dove anche io andai ad abitare proprio nello stesso stabile.
Di popolo non è rimasto nulla; tutto è stato ristrutturato e i prezzi per metro quadrato si sono moltiplicati per 10. Con l’inevitabile accessorio di ristorantini fighetti ed eco compatibili. La sezione è stata venduta per pagare gli immani debiti dell’ex-PCI.Costruire una sezione da zero fu entusiasmante. Intanto la battezzammo, nientepopodimeno, che con il nome di Carlo Marx. In Federazione alzarono un po’ il sopracciglio per l’evidente megalomania che trasudava da quella scelta. Non sarebbe stato più adeguato e più popolare il nome, che ne so, di un partigiano milanese eroe della resistenza? Ma noi intuivamo in anticipo le regole del marketing e l’indubbia attrattiva di un nome così importante. Quindi Carlo Marx fu, con corrispondente ritratto del barbuto padre del Manifesto del comunismo mondiale appeso in bella vista dietro il tavolo delle riunioni, con l’incipit forse più bello nella storia dei manifesti politici: “Uno spettro s’aggira per l’Europa”.
Ma nella scelta del nome pesava anche un’altra cosa. Perché certo io e altri avevamo fatto la scelta del PCI in un momento onestamente poco di moda. Di tendenza erano i movimenti studenteschi e le ideologie forti, estreme, rivoluzionarie, mentre le sezioni del PCI erano frequentate da gente che andava a letto presto, dovendosi alzare la mattina dopo per lavorare: uomini e donne per bene e con i capelli tagliati corti. A questi il Partito insegnava prima di tutto a essere un esempio di serietà nel luogo di lavoro o di studio. Ma quel clima di intransigenza e di radicalismo un po’ aveva attecchito anche fra di noi, soprattutto i più giovani, con un po’ di complesso di inferiorità nei confronti di quelli che volevano fare la rivoluzione.
Per di più eravamo nel centro storico della città, con una certa prevalenza di intellettuali di vario tipo, di varie arti e mestieri. E come ci pesava quando ci dicevano che eravamo un po’ di destra! Noi volevamo essere di sinistra, molto di sinistra. E quindi ci collocammo nel dibattito interno naturalmente fra gli ingraiani. Ora, caro Claudio, la cosa che ci piaceva di più di Ingrao era naturalmente completamente sbagliata: l’antagonismo a tutti i costi, l’autosufficienza del PCI rispetto alle altre forze democratiche, soprattutto il timore che un’alleanza con il Psi potesse portare alla socialdemocrazia, con conseguente perdita del carattere rivoluzionario del partito. Naturalmente tutto questo aveva bisogno di un linguaggio involuto, evocativo, suggestivo. La conosci naturalmente la storia che si racconta su Ingrao, il quale, terminato il suo intervento al Comitato Centrale, si siede al suo posto e chiede al suo vicino, Giancarlo Pajetta, la lingua più tagliente del Partito: “Per favore passami l’acqua”. Pajetta lo guarda e risponde: “Con piacere, anche perché sono le prime parole che capisco di tutto quello che hai detto”. Ma noi, più che comunisti ingraiani, eravamo ancora comunisti romantici e, oltre alla dura prassi, volevamo anche un po’ di poesia.
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Caro Chicco, per trasmettere a chi ci segue una vaga idea di quanto il mondo del PCI fosse un universo variopinto ma vero, basta una descrizione rapida dell’insediamento, della composizione sociale e anche degli orientamenti politici prevalenti della mia sezione di Napoli, che già dal nome (1° maggio) tradiva una certa propensione al riposo più che all’attivismo spinto. Gli iscritti non erano molti, anche meno di 200, e il tesseramento – il cui andamento andava trasmesso periodicamente in Federazione all’inflessibile compagno Mauriello – procedeva sempre con pigrizia e ritardi. Le serate in sezione scorrevano lente, scandite da Pasquale, imbianchino con occhiali a culo di bottiglia, che aveva le chiavi dell’appartamentino e di norma apriva la sezione verso le 18, con mani e pantaloni ancora imbrattati di pittura. P
oi, alla spicciolata, arrivavano gli altri: Carmine, amministratore della sezione, impiegato della Compagnia del Gas, che circolava sempre con un tubo di ferro avvolto in un foglio di giornale, per timore – sosteneva – delle aggressioni fasciste; Matteo, pasticciere provetto, che con Salvatore, impiegato in una compagnia assicurativa, frequentava i paesi dell’Est, tornandone con resoconti reticenti su tutto, tranne che sulle conquiste femminili realizzate grazie a stock di calze occidentali; l’altro Pasquale, edile mite e accomodante che a ogni congresso veniva eletto segretario perché nessun altro voleva farlo; e poi Vincenzo, Giovanni, Giampaolo, qualche altro avventizio e infine Emanuele, ebreo, inflessibile professore di latino e greco, che della “1° maggio” era l’ideologo, contrario a ogni forma di movimentismo e di disordine sociale, seguace di Giorgione Amendola, di destra ma molto filosovietico.
Il panorama umano della sezione era insomma variegato e socialmente indefinibile, come poco etichettabile era Materdei, quartiere di transito tra il centro antico della città e il Vomero, democristiano per vocazione e storia, che in quei primi anni ‘70 subiva la fascinazione di Giorgio Almirante e della invocata svolta a destra. Al punto che il capo del Msi decise di sbarcare per un comizio elettorale a piazza Capecelatro – che riempì come un uovo – e i pigri militanti della 1° maggio si fiondarono fuori dalla sezione per urlare la loro protesta antifascista. Fu un atto coraggioso, in realtà sconsiderato, perché finimmo tutti confinati rudemente in un angolino della piazza da un cospicuo manipolo di mazzieri e un altrettanto nutrito squadrone di poliziotti. Ma diventò una piccola medaglia al valore, perché da quel momento anche in Federazione qualcuno cominciò a prendere in considerazione i compagni di Materdei, che fino a quel momento non avevano mai maturato quarti di nobiltà combattente.
Qualcuno ai piani alti cominciò anche a interessarsi al fatto che la sezione si stava svecchiando, perché eravamo arrivati in forze io con i miei amici stretti (Ciro, Alberto, Antonio) a mettere un po’ di pepe nella minestra, accolti con simpatia e calore umano dai vecchi militanti, ma con l’inevitabile diffidenza riservata ai nuovi ingressi in una comunità già strutturata e chiusa. Peraltro con noi cominciarono a frequentare la sezione le nostre amiche Gilda e Lucia. E questa fu una colossale novità. Fino ad allora di donne non si vedeva l’ombra, nell’appartamentino di via Salute. Solo in occasioni davvero straordinarie si affacciavano Lia e Dina Villone, anziane sorelle di un famoso professore trotzkista che aveva lasciato il partito per irrimediabili dissensi.
Così, con un po’ di ritardo rispetto alle effervescenze milanesi che descrivi, nella piccola sezione 1° maggio di Materdei fece irruzione un po’ di modernità. E a me fu consegnato il compito gravoso di tenere la relazione introduttiva in un’assemblea con la partecipazione di Carlo Fermariello, simpaticissimo e vivace senatore, noto per aver recitato nel film di Rosi “Le mani sulla città”. Quello che ancora ricordo adesso con vergogna, è che mi lanciai in una improbabile dissertazione sulla “proletarizzazione dei ceti medi” (magari potremmo parlarne oggi, ma allora la cosa non era certo all’ordine del giorno). E ancora mi bruciano le parole di Fermariello nelle conclusioni: “Caro compagno Velardi, cerchiamo di parlare come si mangia, in maniera semplice. Altrimenti la gente non ci capisce”.
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