PA e Terzo Settore: insieme per venire incontro ai bisogni del cittadino
L’amministrazione condivisa è la vera strada per affrontare le grandi sfide del nostro tempo
La coprogrammazione individua i bisogni da soddisfare e le risorse disponibili. La coprogettazione definisce e realizza specifici progetti di servizio o di intervento. Entrambi sono istituti di amministrazione condivisa tra Pubblica amministrazione e Terzo settore, nati in Italia nel 2017 con il codice del Terzo settore.
Pensare, programmare, progettare. E farlo, insieme. Facile a dirsi, molto meno a farsi, nonostante vi siano premesse autorevoli, come quelle costituzionali. Basti citare l’articolo 2 “…doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e l’articolo 118 del Titolo V “…svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. E nonostante parole come coprogrammazione e coprogettazione non siano più confinate nei testi universitari e di settore ma facciano ormai parte della legislazione.
Gli istituti di amministrazione condivisa tra Pubblica amministrazione e Terzo settore sono nati in Italia nel 2017 con il codice del Terzo settore. Regione Toscana si è subito mossa per promuoverne l’attuazione ed è del 2020 la relativa legge regionale. Nel 2021 vengono pubblicate dal Ministero del lavoro e politiche sociali le linee guida per l’attuazione, e fortunatamente – ma non per caso – sono coerenti con la norma toscana. Nel 2023 il codice degli appalti pubblici riconosce a questi istituti pari dignità rispetto agli affidamenti competitivi classici, fermo restando l’obbligo di pubblicità trasparenza imparzialità della PA.
Questa è la cronistoria, giustamente per inquadrare e dare rilievo alla evoluzione legislativa in materia di coprogrammazione e coprogettazione.
Tutto fatto, quindi? Non proprio. Il mio è un punto di vista certo particolare ma molto concreto di Direttrice della zona distretto di una Azienda sanitaria locale, quella della Toscana orientale. È un angolo di osservazione e di azione che mette in luce quanto principi apparentemente ovvi, quali il riconoscimento dell’apporto di competenze e risorse del terzo settore, trovino ostacoli nel sistema di regole e di abitudini che contraddistingue la pubblica amministrazione.
La coprogrammazione e la coprogettazione sono infatti procedimenti amministrativi, oltre ad essere “un metodo di lavoro”. Iniziano e terminano con un atto della PA, in mezzo ci sono la pubblicazione di un avviso, la definizione dei partecipanti e l’attività partecipata verbalizzata. Obiettivo della coprogrammazione è individuare i bisogni da soddisfare, gli interventi necessari, le modalità di realizzazione, le risorse disponibili. È quello che fino ad oggi molti enti pubblici illuminati hanno cercato di fare, costituendo tavoli e comitati di partecipazione, spesso sollecitati dal Terzo settore. La coprogettazione, invece, ha l’obiettivo di definire e realizzare specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti nella programmazione. L’ente pubblico che ha bisogno della attività del Terzo settore può scegliere il percorso della coprogettazione o quello classico dell’affidamento via Codice degli appalti.
Penso che, almeno sulla carta, tutti preferiscano la coprogettazione perché il soggetto del Terzo settore ha (o dovrebbe avere) competenze specifiche e di rilievo sulla tipologia di servizi che gestisce, un forte radicamento sociale nel territorio, risorse proprie da investire. La domanda è se un amministratore pubblico se la sente di affrontare un percorso nuovo e ricco di elementi di imprevedibilità, se ritiene di avere le forze per percorrere questa strada: c’è personale con competenze in grado di guidare questo tavolo nuovo? Che ha avuto voglia e tempo per formarsi? Che ha competenze negoziali oltre che tecniche ed amministrative? Non sempre le risposte sono positive. La durata della coprogettazione sarà compatibile con le scadenze del servizio da gestire? Gli enti del terzo settore del territorio avranno la volontà di collaborare?
A complicare la situazione c’è la intricata articolazione della macchina sanitaria pubblica. Qual è il soggetto al quale spetta la scelta? La zona distretto è parte di un ente, l’azienda sanitaria locale, dipendente della Regione, che a sua volta si avvale di altro ente regionale, ESTAR, per l’affidamento dei servizi. E risponde delle sue scelte alla conferenza dei sindaci, particolarmente quando sono in gioco servizi sociosanitari ed enti del terzo settore. Poi c’è la complessità del funzionamento dei tavoli, che richiedono l’integrazione di molteplici soggetti e vanno affrontati non come un pranzo di gala ma come una sede di potenziali conflitti. Vero è che premessa dell’amministrazione condivisa è il perseguimento dell’interesse generale da parte sia degli enti pubblici che del Terzo settore.
Ma la strada per l’interesse generale è costellata da una miriade di interessi particolari. Ogni ente, del terzo settore come il pubblico, ha il suo budget e i suoi obiettivi. E così le persone: il fattore umano è preponderante, molto più che negli appalti competitivi classici.
Questo non vuol dire frenare o rinunciare rispetto a nuove e positive – soprattutto per i cittadini – opportunità. Non possiamo cantare “bello e impossibile”, ma essere consapevoli del “bello e difficile”. Alla fine, il criterio determinante di scelta della procedura sta nel fattore umano: la voglia di navigare in mare aperto, l’ottimismo, la fiducia nelle persone. Da accompagnare con sagge analisi di contesto e dei molteplici livelli decisionali. L’amministrazione condivisa è la vera strada per affrontare le grandi sfide del nostro tempo, e dobbiamo rimboccarci le maniche perché cresca e si sviluppi nel nostro modo di pensare e operare.
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