Serhiy Fursa, analista finanziario e trader del mercato obbligazionario ucraino, scherza alla domanda su come vadano le cose a Kyiv: «Ora che è giorno va tutto bene». Alleggerendo così la tensione vissuta dalla popolazione a causa dei raid notturni.

Fursa, partiamo dal summit in corso a Roma. Ha senso parlare di ricostruzione in questo momento?
«Essere scettici è lecito. Il conflitto si sta intensificando. Quindi la sua fine è difficile da prevedere. D’altra parte, il processo di ricostruzione dovrà iniziare esattamente il giorno dopo lo stop delle ostilità. Dobbiamo essere pronti e al tempo stesso flessibili. Cosa c’è da ricostruire? Partiamo da questa domanda. Strade, ponti, città. Bene. Dove? Nel territorio al momento occupato dai russi. Questo è un problema di cui bisogna essere consapevoli».

Dopo tre anni di economia di guerra, si dovrà riconvertire l’intero sistema. Sarà un’impresa complessa.
«Che quella ucraina sia un’economia di guerra è vero solo in parte. In questi tre anni di conflitto, molti settori non sono stati colpiti. Per questo credo che sia più corretto parlare di costruzione, e non di ricostruzione. Noi abbiamo un sistema di approvvigionamento energetico da fare praticamente ex novo. Era assente già da prima della guerra. Se si vorrà avviare un piano di integrazione dell’Ucraina all’Unione europea, bisognerà realizzare un sistema di infrastrutture energetiche collegate al territorio europeo in maniera duratura».

Ancora a febbraio, lei è stato tra i primi a sollevare la polemica sulle materie prime strategiche. Eventuale oggetto di scambio con Trump per avere forniture militari e supporto diplomatico. Con la pace, il riposizionamento del Paese passerà proprio dalle commodity?
«È presto per dirlo. In questo momento, possiamo permetterci di fare dei ragionamenti a due, tre anni. Prima ancora, i nostri alleati occidentali devono riflettere su come impiantare industrie e strutture produttive sul nostro territorio. Questo richiede investimenti su larga scala e indentificare settori specifici che facciano da driver per il rilancio».

E chi detterà il passo di questo percorso? Le istituzioni finanziarie europee oppure i singoli Stati, sulla base di chi ha contribuito di più alle spese di guerra?
«I Paesi del Nord Europa sono quelli che hanno versato più risorse a nostro favore. Tuttavia, non credo che avanzeranno delle pretese di prelazione. Piuttosto, l’impegno della Banca europea per la ricostruzione e per lo sviluppo e della Banca europea degli investimenti (Bers e Bei, ndr) dovrà fare da traino alle risorse private, di cui l’Ucraina è sempre stata in deficit. Raggiunta la pace si dovrà cambiare proprio questo lato caratteristico della nostra economia».

Quindi via gli oligarchi?
«Dopo tre anni di guerra, il loro peso si è ridotto in maniera significativa. La normalizzazione post-conflitto deve prevedere anche l’avvio di un serio processo democratico. Con tanto di elezioni e tutto il resto».

Il che vuol dire anche accelerare l’integrazione dell’Ucraina nell’Ue.
«Questo possiamo augurarcelo. Come tutto. L’importante è capire i tempi. Se, raggiunta la pace, il processo di investimenti dovesse iniziare con il piede giusto, potremmo dire che siamo sulla strada d’ingresso nell’Ue. E così stimare dai cinque ai dieci anni per il raggiungimento del risultato».

Come giudica BlackRock che si è ritirato dal piano di ricostruzione dell’Ucraina?
«In uno scenario in cui la ricostruzione è ancora da definire, non mi pare che sia drammatico. Succede in finanza».

E di Trump, invece, ci si può fidare?
«Qui devo essere diplomatico».

Ma lei è economista, non diplomatico.
«Vero anche questo. Washington aveva deciso di indirizzare circa 30 miliardi di dollari all’Ucraina nei prossimi anni. Poi questa somma è sparita. Mi fiderò di Trump solo quando vedrò risultati concreti. Per ora abbiamo solo dichiarazioni. A volte sono accomodanti, come quando parla di Putin. Abbiamo cominciato perfino a percepire una certa empatia nei nostri confronti. È qualcosa di nuovo per noi. Ma, ancora una volta, quando si parla di Trump, bisogna guardare quello che fa, non quello che dice».