Tanti anni fa, durante un viaggio negli Stati Uniti, entrai in una grande libreria di Denver: una Barnes and Noble posta accanto a uno di quei galattici ipermercati che si affacciano sui parcheggi quasi agli svincoli delle freeways. Andai davanti agli scaffali della letteratura americana contemporanea e vidi decine e decine di romanzi e racconti di scrittori sconosciuti in Italia perché ancora non tradotti. «Quanto ben di Dio che resta inutilizzato!», pensai con una certa amarezza. Noi, nella mediterranea notte provinciale, della produzione a stelle e strisce riusciamo a scorgere solo qualche luminoso iceberg: Cormac McCarthy, Don De Lillo, Richard Ford, eccetera eccetera, per citare, tra gli scrittori famosi, quelli a me più cari.

Ma esistono tanti altri veri talenti che non leggeremo mai, forse perché gli stili che li contraddistinguono, originali e caratteristici, non vengono neppure presi in considerazione dalle case editrici più importanti, tese troppo spesso solo verso il nome di moda, in grado di richiamare il tanto auspicato successo di vendite. Altrimenti non si spiegherebbe la ragione per cui un autore importante, fondamentale direi, come Larry Watson, nato a Bismarck, North Dakota, nel 1947, abbia dovuto attendere il 2020 per essere pubblicato nel nostro Paese grazie alla benemerita iniziativa di Mattioli 1885, piccola e vitale postazione editoriale di Fidenza, che nella sua collana Frontiere, ha appena dato alle stampe il libro d’esordio del 1993, Montana 1948 (traduzione, impeccabile, di Nicola Manuppelli, pp. 140, 16 euro).

È la storia di David Hayden, un ragazzo di dodici anni che, diventato adulto, racconta l’evento in grado di cambiare la vita a lui e a tutta la sua famiglia nell’immaginaria contea di Mercer, in Montana, all’indomani della Seconda guerra mondiale: «Ero un bambino introverso, certo, ma non era solo questo. Il fatto è che al di fuori della società sentivo una contentezza che non riuscivo a trovare al suo interno». Il padre, sceriffo di Bentrock, capoluogo della contea, soffre la maggiore prestanza fisica del fratello Frank, medico e carismatico reduce di guerra. La madre, dalla speciale sensibilità, lavora all’ufficio del registro. Spicca la giovane governante di origine indiana, Marie, con il fidanzato, Ronnie, magnifico atleta. Sarà proprio lei, suo malgrado, a far scattare la catastrofe che segnerà per sempre quella torbida, indimenticabile estate.

Quando si ammala di polmonite, a curarla viene chiamato Frank, zio del protagonista, il quale nei confronti della seducente pellerossa si prende qualche libertà di troppo, obbligando il fratello a intervenire. Così noi lettori scopriamo con raccapriccio lo scarafaggio sotto la roccia: già dal tempo del nonno, il vecchio capostipite, il razzismo contro i nativi americani veniva a stento trattenuto. Il fatto che David, nella sua ingenuità, sia affascinato da Marie innesca un processo rovinoso capace di mandare tutto a rotoli. Lo scrittore racconta i fatti attraverso il doppio sguardo di David da giovane e da grande: questi due punti di vista trovano una sintesi straordinaria grazie all’uso virtuosistico della parentesi che attribuisce all’adulto una tragica consapevolezza sul male umano assolutamente ignota all’adolescente.

Così il romanzo, che all’apparenza sembrerebbe una semplice cronaca nera, scopre la sua profonda risonanza simbolica: da una parte illustra il passaggio, irto di ostacoli e pieno di incognite, verso la maturità; dall’altra accende una luce rossa sui protocolli giuridici che vorrebbero sancire lo status quo. Una volta David, quando tutto doveva ancora accadere, giocando a football sul prato insieme alla coppia di Sioux, saltando per catturare la palla e correndo il più veloce possibile insieme a loro, aveva avuto l’impressione di cogliere, nella spasmodica libertà di quel giorno lontano, la presenza arcana degli antenati, come se il campo aperto in cui si intrattenevano nascondesse nelle proprie viscere un cimitero di scheletri: «Sentivo che ciò a cui stavamo giocando, più precisamente come giocavamo, aveva origine nel retaggio indiano di Ronnie e Marie, ma non avevo modo di saperlo con certezza».

Montana 1948 ci impartisce quindi una vecchia lezione: chi non sa rinunciare alla ricerca della verità rischia di essere esposto al pubblico ludibrio. Negli Hayden rivive il dramma che sta alla base della fondazione dello Stato, nel sogno infranto e ricomposto di ogni democrazia. Tutte queste cose Larry Watson non le dice in modo esplicito, piuttosto le lascia intendere. L’armonia spezzata nel sangue delle popolazioni indigene sembra tornare filtrata in certe improvvise folate d’inizio autunno. Come un poeta, lo scrittore consegna idealmente alla madre di David, dilaniata fra libertà e dovere, il testimone di una profonda consapevolezza: «Qui il vento ha un odore diverso. Nel North Dakota sapeva sempre di terra, anche nel mezzo dell’inverno, con tutta quella neve, sentivi ancora l’odore della terra nell’aria, come se il vento venisse da un luogo aperto che non si congelava mai. Qui il vento sa di neve, di pietra, di montagne. Non importa quanto siano lontane. Le sento comunque, là fuori, e non riesco ad abituarmi. Non ci riuscirò mai. Immagino che il mio cuore in qualche modo appartenga alla pianura».