In estate bisognerebbe leggersi un classico, anche della modernità. Quest’anno ho scelto Proust, l’ultimo volume della Recherche, Il tempo ritrovato, che avevo lasciato da parte trent’anni fa. In spiaggia, questo agosto, mi portavo Proust e un albo di Tex Willer, per una corretta dieta bilanciata. In Tex si soddisfa il mio bisogno di avventura e azione (nella Recherche non succede quasi niente). Vi ho scoperto una quantità di citazioni dal western classico, oltre alla celebre espressione “tizzone d’inferno” che viene direttamente dai Promessi sposi. Tex il western americano lo prende sul serio, ne rispetta l’epos profondo. Non come Sergio Leone che invece – benché con uno stile personalissimo, che a sua volta ha fatto scuola – ce ne offre una parodia manierista “de Cinecittà”, riducendolo a barzelletta e riempendo i duelli di interminabili silenzi mafiosi… Torniamo a Proust. Che dire della Recherche che non sia già stato detto? Ne approfitto allora giusto per ribadire un paio di punti.
L’intera opera,variata al suo interno (sette volumi) ma con temi ricorrenti e rimodulati, come avviene nelle nove sinfonie di Mahler (un altro spirito oscillante tra la leggerezza e il tragico), è la negazione dei valori cristiani di fratellanza e solidarietà come aveva ben visto il suo traduttore Fortini, e anzi consiste largamente in un elogio dello snobismo, dell’estetismo, delle distinzioni di casta, etc. Questo va ricordato perché recentemene Sandro Portelli – un grande americanista che stimo – , sul Manifesto ha un po’ incautamente usato una frase isolata de Il tempo ritrovato contro lo sdegno per l’abbattimento delle statue. Vi leggiamo infatti che la distruzione in guerra “di tanti giovani meravigliosi, che erano delle incomparabili statue policrome non è forse anch’essa vandalismo?”.
Va bene, ma se si continua quel passo proustiano scopriremo che il Narratore andando al ristorante in tempo di guerra è afflitto soprattutto dalla bruttezza dei camerieri: “Che gusto esser serviti da esseri rachitici, occhialuti, che portano stampato in faccia il motivo dell’esonero!”. Però bisogna subito aggiungere che la Recherche – nella sua grandezza assoluta – comprende anche la critica dello snobismo e dell’estetismo. E lo stesso Fortini dovette riconoscerlo.
La pagina di Proust, fitta di microeventi (il Narratore dice di essere chiamato un “collezionista di dettagli”), di idee, di “intermittenze del cuore” e di notazioni sulla vita sociale, davvero ritrae il fluire stesso dell’esistenza. In questo senso potebbe ambire anch’essa a un’epica, sia pure di tipo speciale. Le descrizioni dei salotti, della vecchia aristocrazia e dei parvenu sgomitanti, è di una perfidia assoluta, e ricorda molto il Dickens del Nostro comune amico.
Ne Il tempo ritrovato sono raggelanti le pagine dedicate alla lugubre metamorfosi dei personaggi, ora tutti in età avanzata. In questi ritratti non spira un’oncia della pietas che, poniamo, si trova nei racconti di Cechov. Di una vecchia signora, ossuta e dal viso incavato, arida e ottusa, si dice che con l’età è migliorata, diventando più carnosa: “La bontà e la tenerezza, un tempo impossibili, diventano ora possibili su quelle gote”.
Ora, leggendo proprio l’ultimo volume appare ancor più evidente l’equivoco in cui sono caduti molti lettori, sviati dal titolo dell’opera complessiva. Non si tratta qui di recuperare il tempo perduto, ma di trovare ciò che è comune al passato e al presente e che è “molto più essenziale di entrambi”. Accade che una sensazione – un dislivello nel terreno, il rumore di un cucchiaio, una madeleine nell’infuso, un profumo, il titolo di un libro già letto, dunque tatto, udito, gusto, olfatto, vista – balena contemporanemante nel passato e nel presente, e si converte in un “fremito di felicità”, fermando lo scorrere del tempo.
Ciò che lo scrittore insegue non è il tempo perduto ma l’affrancamento dal tempo. A quel punto neanche la morte potrà più spaventarci. Siamo in prossimità della eternità di Severino Boezio, la quale consiste non tanto in un tempo infinito quanto in una sospensione della “azione distruttrice del Tempo”, in una plenitudo vitae. E tutto questo, per Proust, non deve assolutamente essere cercato. La verità profonda che si schiude in quelle sensazioni o impressioni ( e non attraverso l’intelligenza!) – e che l’arte si incaricherà di fissare – è la morte dell’intenzione e del progetto: ci raggiunge quando meno l’aspettavamo, come un ricordo involontario, interamente casuale.
In questo senso la Recherche mi appare come il più grandioso tentativo novecentesco di edificare una religiosità interamente laica, di tradurre in termini moderni e secolari una teologia che affonda nel cristianesimo (per Jacqueline Risset, che ha tradotto la Divina commedia in francese, Proust era il loro Dante, venuto non all’inizio ma alla fine). Nel conclusivo , dove il coté saggistico-riflessivo incombe forse più che negli altri volumi, ci viene offerta l’immagine – straziante ma anche esaltante – di una eternità fuggitiva, l’unica di cui possiamo fare esperienza.