Letture
L’invenzione della “tenera” notte: perché Fitzgerald incanta ancora
Domani correremo più forte è un saggio esemplare: Sara Antonelli ci dà tutte le chiavi per aprire i forzieri letterari del grande scrittore americano e per scoprire la sua mente geniale e vulnerabile
«Sono stato un innovatore», scrive Francis Scott Fitzgerald ormai verso la fine della sua breve e densissima vita. In realtà è stato molto di più: se c’è uno scrittore americano a cui attribuire l’aggettivo “classico”, questo è lui. Innovatore e classico: a pochi romanzieri si attaglia questo binomio, solo ai grandissimi. Fatto sta che a cento anni esatti dall’uscita del “Grande Gatsby“, capolavoro del Novecento, Fitzgerald incanta ancora con i suoi personaggi trasognati, difficili, enigmatici, infine sconfitti da sé stessi: Gatsby, certo, ma anche il Dick Diver dell’altra sua grande opera, “Tenera è la notte”, (probabilmente il titolo più bello della letteratura novecentesca) o l’Anthony Patch di “Belli e dannati”, folgorante romanzo sui “roaring twenties”, la mitica età del jazz che raccontò anche in decine di grandi racconti.
Ora questo esemplare saggio, davvero bellissimo, di Sara Antonelli, “Domani correremo più forte – Vita letteraria di F. Scott Fitzgerald” (Feltrinelli), ci dà tutte le chiavi per penetrare nell’universo fitzgeraldiano e aprire i forzieri dell’arte sua, nella sua mente così geniale e vulnerabile, nei suoi amori eccitati e sfortunati – la leggendaria Zelda Sayre –, nei suoi labirintici itinerari letterari. Tra questi spicca, per la bellezza dell’espressione adoperata da Antonelli, “l’invenzione della notte”, quella notte “tenera” che pare avvolgere tutto il romanzo omonimo anche quando la scena è assolata: perché la “notte” di Fitzgerald è uno stato d’animo, è il buio dell’incertezza, e la “tenerezza” è solo la patina di una condizione esistenziale malferma, quella dei suoi eroi e quella di lui, Scott.
In effetti la storia di Fitzgerald è un enigma, e Antonelli lo spiega fin dalle prime righe: «Tenuto conto di un’esistenza tanto erratica (lo scrittore cambiò decine di città e di case, ndr), cui l’alcolismo e la morte senza gloria aggiunsero un sovrappiù di caos e tragedia, l’altezza vertiginosa dell’opera di Fitzgerald sembra quasi inspiegabile». L’amico-nemico Hemingway, l’altro nume della letteratura americana, lo descrisse come un’ignara farfalla, un uomo inconsapevole che gettò il suo enorme talento nel vortice dei debiti e nel frastuono delle bottiglie prosciugate. I due si amarono e si odiarono. E ancora oggi sussiste una rivalità tra hemingwayani e fitzgeraldiani, ma come sempre in questi casi si tratta di un inganno: due geni sono due geni. Solo quattro romanzi, più l’incompiuto “Gli ultimi fuochi” su quella Hollywood che non lo capiva e che lui non capiva, ci ha lasciato: due capolavori assoluti (“Gatsby” e “Tenera è la notte”), e due ottimi romanzi, il famoso “Belli e dannati” e il primo, qui giustamente apprezzato, “Al di qua del paradiso”, scritto poco più che ventenne, grande abbozzo del clima giovanile dei primi anni Venti, dove compare la frenesia dell’abbagliante New York e l’incombente “sconfitta” del giovane protagonista che ha un nome bellissimo, Amory Blaine.
Ancora ragazzi, Fitzgerald d’improvviso illumina l’America. «Dopo l’età della pietra e l’Età del ferro ecco dunque arrivare l’Età del jazz. A Fitzgerald bastò nominarla e l’evoluzione umana sul pianeta Terra smise di essere un progresso legato alla materialità degli utensili per abbracciare la leggerezza, il superfluo, il ritmo battente della gioventù», nota Antonelli. Ci sono qui già alcuni motivi che esploderanno in “Gatsby”, il gioiello più prezioso: «Mentre gli Usa iniziavano a conquistare l’immaginario del mondo occidentale – scrive Antonelli – il libro di Fitzgerald verificava la tenuta della base di lancio, quell’innaturale prato blu da cui Gatsby spicca finalmente il volo per agguantare la sua idea di terra di latte e miele. Scopre però che mentre Gatsby si allunga fiduciosamente in avanti, la meta tanto agognata – una giovane Daisy e al contempo un territorio che promette meraviglie a chiunque si lascerà incantare dalle sue promesse – nel frattempo è già scivolata alle sue spalle».
Daisy è il passato che non potrà diventare il futuro e, come dice il narratore della storia Nick Carraway, «non si può ripetere il passato». Ma questo Gatsby non lo capisce. E tende le braccia in avanti: questo significa la frase «domani correremo più forte», che è di Fitzgerald, ma che in un certo senso si confonde con Gatsby. Leggiamolo, il memorabile finale: «E mentre me ne stavo lì a rimuginare su un mondo vecchio e sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby quando per la prima volta aveva scorto la luce verde in fondo al pontile di Daisy (…) Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Allora ci è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo le braccia ancora di più… E un bel mattino… Così navighiamo di bolina, barche contro la corrente, riportati senza posa nel passato». Fu un enorme successo. Ma Scott, con una Zelda che piano piano precipita nel buio della mente, comincia a rovinare rapporti umani, tutto. Gira come una trottola, beve come una spugna, dilapida soldi, distrugge amicizie. La sua vita rotola. L’estro resta, però, anche se confuso, ha sempre un’altra considerazione di sé come scrittore. La tensione al futuro di Gatsby-Fitzgerald, che è tipicamente americana, è al tempo stesso fiducia nel domani ma anche il segno di una permanente insoddisfazione per il presente: è in questo pendolo la chiave della sua psicologia.
Si dibatte, produce l’ultimo romanzo, cupo e meraviglioso, “Tenera è la notte” (1934) dove – scrive Sara Antonelli – «la rovina giunge solo dopo aver toccato le vette della felicità. Solo così è più fragorosa, la rovina, e spettacolare». Il medico fallito Dick Diver è lui soccombente, ma la prima parte sulle sere d’estate sulla Costa Azzurra, sul clima stupidino e felice di quel gruppo di ricchi americani sfaccendati, è tra le più immaginose del secolo passato. Gli ultimi anni sono strani, difficili, come se il mondo corresse più veloce di lui. Con uno scatto – sono passati dieci anni dal trionfo di “Gatsby” – rinuncia all’alcool, prova a brillare a Hollywood senza grande successo, non è più il ragazzo bello, ora è solo dannato. Reggerà fino al 21 dicembre del 1940, l’ultima notte di Francis Scott Fitzgerald.
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