Napoli non smette mai di sorprendere: basta un coro di polemiche online e il Comune si piega senza battere ciglio. Le istituzioni locali preferiscono il comodo rifugio dell’ideologia anti-Israele alla fatica della libertà. E così viene revocato il patrocinio all’iniziativa «Falafel e democrazia – Il Mediterraneo si incontra a Napoli», affrettandosi a cancellare ogni parvenza di coraggio. Una vera e propria sottomissione alla caciara del web. La pressione dei pro-Pal sulla politica, va detto, funziona. E così un’occasione di dialogo si trasforma in un’arena per bersagliare l’ex premier israeliano Ehud Olmert. Sempre il solito copione. Lo storico campano Carmine Pinto svela come la retorica antioccidentale sia riuscita a imporsi non solo nel dibattito pubblico, ma anche nell’establishment accademico e nelle istituzioni.

Il Comune di Napoli revoca il patrocinio concesso all’iniziativa. È un caso che le istituzioni sono molto veloci quando si tratta di smarcarsi dallo Stato ebraico?
«Non è certo un fatto locale. La battaglia mediatica, politica e culturale sulla guerra di Gaza è diventata uno dei temi centrali del palcoscenico mediatico, della possibilità di creare riconoscimento in molti ambienti della società occidentale».

La Guerra Fredda sembrava aver ratificato il trionfo dell’Occidente, e invece oggi lo scenario è drasticamente cambiato…
«Nel 1989 il crollo del sistema sovietico, seguito dalla fine dei regimi in Europa orientale, sembrò sancire il trionfo del liberalismo occidentale e del capitalismo della globalizzazione. In parte fu davvero così: l’Europa diventò un paradiso unico di libertà e benessere; il mondo uscito dal socialismo reale si integrò nel capitalismo globale; una parte immensa di queste società uscì da condizioni secolari di miseria. Nonostante questo, la vittoria dell’Occidente stimolò progetti statuali, dottrine politiche, narrazioni ideologiche alternative».

Ovvero?
«Le alternative al mondo liberale e capitalista si svilupparono su piani molteplici, nel sistema internazionale, all’interno dello stesso Occidente. La prima, quella più visibile, fu il fondamentalismo islamico nella versione del terrorismo internazionale: combatteva il nazionalismo o le monarchie arabe, ma puntava al palcoscenico dell’Occidente. In realtà si delinearono alternative autocratiche tra le potenze sconfitte, mentre la categoria di Occidente prendeva il posto di quella di capitalismo, come terreno di sviluppo di una critica radicale».

Chi sono, oggi, i veri nemici dell’Occidente?
«Le autocrazie, da comprimari del capitalismo globale, ne diventarono rapidamente protagoniste dopo la crisi economica del 2008. La Cina diventò un impero mondiale: fabbrica planetaria a basso costo, modello di autoritarismo efficiente, centro di narrazioni antiliberali. Xi Jinping, oggi l’uomo più potente al mondo, si propone come riferimento delle nuove potenze economiche (come l’India) e, su un piano diverso, come garante di autocrazie tra loro diverse: quelle imperiali come la Russia oligarchico-nazionalista di Putin o il regime islamico-autoritario di Khamenei; tradizionali a carattere paranoico totalitario, come la Corea del Nord o Cuba; politico-criminali di cui la massima espressione è il Venezuela di Maduro».

Autocrazie diverse, certo, ma che hanno punti in comune…
«Innanzitutto, ora guardano alla Cina. Sconfitto in Ucraina e Siria, la foto di Shangai mostra Putin come un personaggio minore. In secondo luogo, si giustificano con dottrine diverse (marxiste, nazionaliste, islamiche) ma condividono elementi comuni: un potere intoccabile e perenne; la violenza repressiva contro oppositori; il controllo di media e risorse economiche; la centralità di élite oligarchiche e cleptocratiche. Soprattutto sono solidali e cooperano contro l’Occidente liberale e le opposizioni democratiche in patria».

Che ruolo giocano le autocrazie in Occidente e nel discorso antioccidentale?
«Le autocrazie sanno che le donne iraniane o afghane, i democratici venezuelani o bielorussi vedono nell’Occidente liberale l’unico vero riferimento, anche solo come modello. Un gay in Russia o a Teheran non avrebbe nessuna possibilità. Pertanto, utilizzano la disinformazione sui social, intellettuali compiacenti sui media, risorse economiche e investimenti nella società reale per alimentare la delegittimazione dell’Occidente e la neutralizzazione della critica democratica in patria».

Sono la stessa cosa della narrazione occidentale antioccidentale…
«Gli attori di queste narrazioni costruiscono la propria logica sull’attacco all’Occidente (al posto di quello al capitalismo); usano come strumento la guerra al passato occidentale (al posto della lotta di classe), affermano princìpi assoluti collettivi (al posto del pluralismo e dei diritti individuali). In questo modo attaccano presente e passato dell’Occidente, ma con le lenti del presentismo ideologico. Sono cose diverse dal discorso autocratico, ma finiscono per coincidere nel momento in cui negano il valore della storia, dell’arte, della scienza, della letteratura, della democrazia occidentale, trasferendo la vendetta sulla storia alla demolizione del presente».

Può fare un esempio?
«La guerra in Ucraina ha mostrato un neo-pacifismo ideologico diverso dal pacifismo morale. Il secondo è strettamente connesso alla libertà e ai diritti politici, civili, sessuali. Il primo è uno strumento per legittimare dittature o carnefici. Certo, un certo pacifismo della nostra epoca coincide con i partigiani della pace di Stalin o con la lotta sostenuta da Brežnev contro gli Euromissili. Però l’equiparazione di Zelensky a Putin o la demolizione della democrazia ucraina è anche un attacco ai valori e ai significati del liberalismo europeo: una convergenza tra il neutralismo filoputiniano e l’antioccidentalismo di settori accademico-mediatici, a cui i social hanno costruito una base popolare».

Ci sono speranze?
«Sì: per quanto il liberalismo e l’Occidente siano con mille difetti (vedi la paralisi e i limiti dell’Europa), non esiste nulla di meglio al mondo».