Innanzitutto, il cuore. L’ultimo romanzo di Marco Rossari, L’ombra del vulcano (Einaudi), sincronizza i battiti di due diversi piani fisici e temporali: la fine di una lunga storia d’amore palpita insieme al traduttore che è alle prese con uno dei testi più epifanici del Novecento, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. C’è un cuore infranto, quello del traduttore. Fremiti che sussultano dietro ai ricordi in una Milano afosa e deserta, insopportabile quanto la vibrante assenza della scintilla che è andata persa. “Tum tum. Lo sente? No, non lo sentiamo più”. È un cuore taciturno. La tristezza viene fasciata dal silenzio. In cucina, il tavolo trabocca di pagine da scrivere e poi correggere, cancellare e riscrivere, ripercorrendo a fatica i passi di qualcun altro in un sentiero ancora incerto e caotico. Poi: rintocchi di felicità. Altri battiti, stavolta accelerano. La testa si perde dietro ai viaggi esotici insieme alla donna che se ne è andata, viaggi alla scoperta del mondo seppure all’infuori del mondo. Loro due e basta.

La sfida è grande: aver perso l’amore, mentre si cerca di ricomporre un romanzo morto. Il ticchettio scende e rallenta, quasi fino all’ultimo tocco. È un cuore malato, quello del traduttore, che a ventidue anni viene colpito da un infarto. Anche allora, era reduce da una storia d’amore precipitata in uno strappo. Ecco un dolore sordo al centro del petto. Difficile distinguere l’angoscia di un sentimento finito da una diagnosi dal nome astruso, temibile, e in fondo perfino elegante: pericardite.

Presi dal mal d’amore, si finisce per non dar peso ai sintomi. È adesso, dopo l’infarto, che il cuore si tramuta da organo non più silente, nel suo ordinario lavorio, a presenza costante: oggetto di indagini e malevoli presentimenti. “Sentivo i battiti accelerare e pulsare all’impazzata, come se il cuore fosse in ogni parte del mio corpo. Sulla punta della lingua, sulla punta delle dita, sentivo il balbettio di quel muscolo atroce”. Se Rossari si riferisca alla fine della storia d’amore, alla traduzione di un testo grandioso come la “Divina Commedia ubriaca” di Lowry o allo stato fisico del suo pericardio, poco importa.

In questo romanzo tutto si tiene e tutto converge verso un suono a volte struggente altre minaccioso: Tum tum. Prima di morire, il Console di Sotto il vulcano sospirava: “Non se puede vivir sin amar”. Non ci si sottrae all’amore per una donna, come non si scampa alla passione per i libri e per quelle frasi che giorno dopo giorno, in mezzo ai bicchieri tracannati in un posto desolato sotto la tangenziale, il traduttore compone e rende sue. “Amare la prosa di un altro essere umano, amare il pensiero che filtra da quelle parole, e in fondo amare un po’ anche quell’essere umano, il fatto che si sia rivelato attraverso le parole, come tutti noi”. Dall’aritmia di un’estate solitaria e così alcolica filtrano due diversi tipi di sentimento, capaci entrambi di costringere alla solitudine, ma entrambi vitali, eroici ed erotici. Quello per una donna che ora si pensa sola nel mondo, senza che ci sia lui a proteggerla. Quello per un lavoro, la traduzione, che insegna a immergersi nel mondo di un altro, provare a capirlo mentre si capisce anche un po’ di sé, abbandonarsi e lentamente cambiare.

Il Console di Lowry diluisce il suo addio alla moglie, mentre contempla una cantina alla luce dell’alba, parole che sono musica: “Così celestiale e complessa e disperata quanto la serranda che si alza di schianto o le porte a persiana sbatacchiate ogni volta che entra un uomo con l’anima che trema come il bicchiere portato con mano incerta alle labbra”. Il traduttore consuma la sua uscita di scena nella nostalgia, nella materia vivida e un po’ enfatica, densa e rigida dei ricordi, stessa malinconica ebrezza mentre immagina la donna di schiena che dice ciao. Lasciarsi, lasciando che il tempo passi. Sera dopo sera. Pagina dopo pagina. In un racconto sentimentale ricco di fulminazioni e poesia, una sbornia che inebria e prende alla pancia.