Leggendo libri fra loro anche molto diversi, a volte si ha l’impressione che quelle storie, reportage, memoir o romanzi, storie reali o immaginarie, malgrado le differenze abbiano qualcosa in comune, con noi e fra di loro. Partecipano, in effetti, i libri di questo prodigio: parlano della nostra vita, e a un livello più sotterraneo, parlano all’esule rinchiuso dentro di noi che non riesce a uscire per via delle imposizioni sociali o delle nostre personali resistenze. Ma non solo.

I libri parlano anche fra loro, legati da una catena invisibile che li tiene insieme nella ricostruzione del mondo. Eccone tre diversissimi, usciti in questi mesi: Il fuoco invisibile (Rizzoli) di Daniele Rielli; Vecchiaccia (Einaudi) di Fuani Marino; Gli innamorati (Einaudi) di Peppe Fiore.
Come recita il sottotitolo: Storia umana di un disastro naturale, nel suo libro Rielli intende ricostruire l’epidemia di Xylella che ha disseccato in Puglia milioni di ulivi, con l’ambizione di inquadrare dentro al reportage le disastrose trappole del nostro tempo. La domanda che erompe dal suo racconto, in cui il piglio critico dello scrittore che riordina la vicenda si fonde al vissuto dell’uomo legato a quella terra da un sentimento di identità, è semplice: il disastro si sarebbe potuto evitare?

Una storia che è prima di tutto umana, dunque politica, che ha la cadenza di un giallo e il respiro tragico del dramma. Ma non sono le premesse a lasciare che esploda, le indagini degli scienziati o l’enigma misterioso del disseccamento, sono semmai le conseguenze che ne scaturiscono. Quando alcuni ricercatori pubblicano una nota dove si attesta il ritrovamento della Xylella e ne danno comunicazione al servizio fitosanitario regionale: è qui che s’innesta la vera parabola, qui che il reportage inizia a muoversi dalle parti della letteratura.
Eccola la storia che riguarda ognuno di noi e che si eleva dalla contingenza di una tragedia nazionale all’universalità del monito. Le resistenze mentali, e tutti i pregiudizi, la minacciosa disaffezione a qualsiasi forma di autorità, in questo caso la scienza, infine la spregiudicata miopia di certa politica. Ulivi abbracciati in segno di difesa, ulivi messi da subito sotto sequestro. E poi, dopo anni di indagini ai danni dei ricercatori, l’archiviazione per ciascuno di loro.

Non prima, però, che stralci di conversazioni private vengano pubblicati sui giornali, frasi estrapolate ad arte e date in pasto alla morbosità del pubblico, mentre sullo sfondo si delinea un paesaggio desolante, stravolto dal fuoco che senza fiamme ha bruciato milioni di alberi secolari. Dopo Svegliami a mezzanotte (Einaudi), Fuani Marino torna in libreria con Vecchiaccia (Einaudi). Ancora un memoir, l’estensione di quel campo di indagine che l’autrice ha eletto a sua misura: la vita di una persona affetta da disagi psichici, la sua vita. Stavolta è il dilagare del Covid a condurla in un viaggio verticale dentro il suo modo di agire. L’ultima volta in cui, per lei, il mondo si era fermato era stato in coincidenza di un malessere acuto, quasi per nulla accolto, fino al tentativo di suicidio. La malattia che risucchia le forze e che porta all’inevitabile mentre, ora, con l’epidemia: l’inevitabile fermarsi del mondo che amplifica la paura.

Succede che la testa inizi ad andarsene per conto suo e che si finisca in uno stato allucinatorio, ciò nonostante si è costretti a separarsi dalla quotidianità mediata a fatica fino a lì. Il sentimento di solitudine esplode con una forza lancinante: «La ragazza sul balcone non c’è più. Si è buttata nel vuoto ed è riuscita nel suo intento. Al suo posto ha lasciato me. Ibrida e amorfa». Trovandoci davanti a sentimenti inconcepibili, mai sperimentati in prima persona, possiamo tendere a semplificare. Attraverso la speranza, i pensieri che si proiettano altrove, ci illudiamo di azzerare il problema. Ben altra forma di resistenza rispetto al negazionismo di cui scrive Rielli, ma stessa cecità nel tentativo di aggirare un disturbo, poco importa se naturale, fisico o mentale.

Il disturbo, lo dice la parola stessa, è lì per disturbare, per creare interferenze, e allora capita di rispondere all’ostacolo, sopprimendolo con l’ingenuità di un bambino, chiudendo gli occhi o voltandosi dall’altra parte, facendoci sedurre da quell’impossibile che ci appare sopportabile. Qualcosa di simile accade anche in amore: «I sentimenti erano il contrario della realtà», scrive Peppe Fiore nel suo Gli innamorati (Einaudi). Un marito e moglie agli occhi degli altri perfetti, una coppia invidiatissima nel coté della Roma veltroniana e un po’ piaciona, acculturata e colorita, che Fiore mette in scena magistralmente. Fino a che tutto si rivela essere quello che invece non era. «Più piccola è la crepa, più imprevedibile sarà lo schianto». Ma a questo punto, data l’interferenza, che cosa fare? Decidere di lasciarsi o scegliersi ancora?

Disastri naturali e umane tragedie nel contenerli, disagio psichico o più semplicemente: l’amore. A filtrare da questi libri è la parola: “pregiudizio”, irriducibile e nebulosa, capace di radunare a sé infinite ipotesi di compimento. Resta l’impressione di una realtà condivisa quasi impossibile, l’immagine di un mondo non in grado di distinguere il vero dal falso, il disturbo dalla messa in scena, ma di accordarsi all’uno o agli altri spinto ad accogliere la narrazione che funziona di più, dove i lumicini della consapevolezza schiariscono dentro al buio di un’epoca – storica, psicologica e sentimentale – che ridà forza all’illusione. Come consolazione, almeno questo: attraverso i libri, adoperando gli strumenti della ragione o della fantasia, facciamo esperienza di una solitudine universale dentro cui, prodigiosamente, riusciamo sempre a sentirci meno soli.