Ci mancava anche questa, il consigliere di Stato nelle aziende private italiane. Tra smentite a mezza bocca, presunti titoli di giornale inventati e botta e risposta fra le parti politiche, ieri si è aggiunta un’altra tessera al grande mosaico sottaciuto della maxi-statalizzazione in corso in Italia come strumento di reazione al terribile impatto economico del Coronavirus. Sono settimane che le imprese aspettano i soldi (in realtà finanziamenti) promessi in plurime conferenze stampa da Conte e necessari a farle sopravvivere nella più grande crisi dai tempi della seconda guerra mondiale. Anzi, in realtà aspettano di poterli chiedere, i finanziamenti, perché già la sola richiesta è resa impossibile ad oggi dalle forche caudine dell’enorme burocrazia che gira attorno ai soldi e alle banche.
In questo contesto, dalla maggioranza di governo, zona Pd, ieri si è rimaterializzato un grumo di ideologia del tempo che fu, con l’apertura all’ipotesi di dare un posto a un rappresentante dello Stato in ogni consiglio di amministrazione delle imprese finanziate, se mai lo saranno. Va bene che gli imprenditori sono già abituati alla presenza dello Stato in azienda, dato che subiscono una pressione fiscale che in alcuni casi supera il 60%, ma è bene stroncare sul nascere ogni possibile evenienza che una cosa del genere possa accadere.
È bene sottolineare che un conto è vigilare su come vengono investiti i soldi prestati, altro conto è pretendere una poltrona al tavolo delle decisioni. I ruoli vanno separati: o lo Stato fa da investitore, assumendosi tutto il rischio di impresa, e a quel punto ha diritto ad un posto nei cda, oppure fa da finanziatore – che quindi non corre rischi se non in caso di fallimento – e non può pertanto pensare di avere un ruolo diretto nella governance delle imprese. Nei consigli di amministrazione devono sedere coloro che sono disposti ad assumersi il rischio insito a un investimento, non coloro che offrono un prestito da restituire.
Capisco che si navighi a vista in questa crisi, ma ogni deroga a questo principio sarebbe sbagliata. Il Pd dice di voler valutare un ingresso dello Stato “a tempo”, in modo da assicurarsi che l’impresa mantenga gli impegni assunti al momento in cui riceve il finanziamento. È chiaro che i temi sono la possibile delocalizzazione e la creazione di posti di lavoro. Ma è già possibile oggi condizionare l’erogazione di finanziamenti all’impegno a non delocalizzare e ad assumere personale. Dunque se è sacrosanto vigilare sui finanziamenti elargiti, non è affatto necessario che lo Stato entri con tutti i piedi nel controllo delle aziende. Imprese e politica è bene che restino soggetti distinti. E poi perché questa disparità di trattamento verso le imprese? Non mi pare che di fronte alle difficoltà o inefficienze di soggetti come ad esempio, è solo un esempio, la magistratura si sia mai pensato di mettere degli del inviati governativi negli organi di funzionamento del sistema della giustizia.
Mentre in Italia si elaborano ricette a dir poco fantasiose per affrontare la crisi – forse perché non c’è una visione vera e propria sul come farlo – i paesi nostri alleati e nostri concorrenti, giorno dopo giorno, a partire dalla Germania, riguadagnano rapidamente terreno, irrorano liquidità nel sistema produttivo e si mettono in condizione di guadagnarsi quote di mercato. È doveroso difendere le nostre imprese da scalate ostili o dalle mire espansionistiche di potenze straniere, ma per favore lasciamo che siano gli imprenditori a fare impresa. Se vogliamo davvero aiutarli si faccia in modo che i finanziamenti di cui hanno bisogno arrivino a destinazione prima che sia troppo tardi e che arrivino, se possibile, non accompagnati.
