L'autrice
L’universo narrativo di Jamaica Kincaid, una riserva inesauribile di rabbia
Tornati tristemente alla routine di settembre, consoliamoci con la speranza che nelle prossime tre stagioni non cadrà sotto ai nostri occhi l’orrida definizione: “Romanzo da spiaggia”. In effetti non ho mai capito cosa s’intenda con “romanzo da spiaggia”, ma se ci si riferisce a libri dalle trame convenzionali, da leggere nel minimo dell’impegno sotto al sole che batte, provvisti di un lieto fine o di una vena consolatoria più o meno dichiarata, ora che l’estate inizia a volgere al termine vorrei consigliarvi un’autrice niente affatto da spiaggia. È difficile trovare un universo narrativo meno consolatorio di quello articolato da Jamaica Kincaid. Un mondo puntellato dai nodi irrisolti di una biografia complicata, il suo. A partire dalla fuga da casa, l’approdo negli Stati Uniti, dopo aver trascorso l’infanzia ad Antigua, fino e attraverso le relazioni conflittuali, temerarie e ondivaghe con la sua famiglia.Prima fra tutti, la madre: il fantasma che incombe trasfigurato, ma riconoscibile in ogni romanzo, nella sua durezza e in quel particolare talento per gli eccessi d’ira o per la mancanza di ascolto con cui si rapporta alla figlia.
Nei capitoli dedicati a Jane Austen di “Una stanza tutta per sé”, Virginia Woolf rifletteva su come per essere un vero scrittore la rabbia debba assottigliarsi nella distanza posta con l’oggetto di cui si narra. E proprio in virtù di quest’assenza di rabbia, Woolf finiva per paragonare Austen a Shakespeare. È certamente vero: la rabbia nella scrittura è un sentimento da maneggiare con cura, ma è vero anche che in letteratura l’eccezione non indebolisce la regola, semmai, supportata dalla capacità, trova il modo per trasfigurarla. Kincaid è una riserva inesauribile di rabbia. Un sentimento che le serve per costruire romanzi con degli elementi ricorrenti, come il rapporto madre-figlia. Il recinto stilistico dentro cui si rinchiude è puro astio, l’attenzione astiosa alla lingua, le ripetizioni ossessive e violente, i fraseggi lunghi, cesellati o fulminei, una cascata di punti e virgola che spezza il fiato.
Nel romanzo “Annie John” (Adelphi) l’educazione che la madre della protagonista impartisce a sua figlia, nel filo delle recriminazioni e delle tracotanti vendette, mostra l’altro lato della medaglia, non solo una madre preoccupata dal futuro di una ragazza così simile a lei, in fondo, e che lei spera distante nelle scelte di vita che compirà – non ritrovarsi, ad esempio, sola e senza soldi con una nidiata di figli avuti da uomini diversi -, ma anche una madre soddisfatta di esercitare quel ruolo di padrona, paga per il gusto di alleggerirsi attraverso una sfuriata.
La protagonista del secondo romanzo, “Lucy”, viene dalle Antille. Si libera dall’amore soffocante di sua madre – ancora una volta – per approdare su un’isola lontana e diversissima dalla sua, Manhattan. È qui che Lucy prende a lavorare come ragazza au pair per guadagnarsi da vivere; qui che l’accoglienza benevola e un po’ di convenienza, ma affatto disumana, che le riserva la famiglia a cui presta servizio fa emergere l’onda d’urto della nostalgia. Il furore, l’astio, tutta la sfacciataggine. Non c’è distanza fra ciò che si è subìto nella vita vera e l’impetuosità del sentire che Kincaid fa emergere dalle azioni, le domande e i silenzi delle sue protagoniste.
In “Autobiografia di mia madre” la figura materna resiste sotto forma di spettro, incomprensione e mancanza, dato che la mamma muore non appena la protagonista viene al mondo. “Certe parti, certi episodi della mia vita di allora”, scrive Kincaid, “mi appaiono a ricordarli oggi come se accadessero in un luogo molto piccolo, buio, un luogo di una grandezza di una casa di bambola, e la casa di bambola è nel fondo di una buca, e io sono in cima alla buca e spio dentro questa casetta, cercando di scoprire cosa succedeva esattamente laggiù”. Una definizione perfetta di letteratura. Spiare da lontano e in mezzo al buio quella minuscola casa di bambole. Sublimare la rabbia attraverso la distanza, o nel caso di Kincaid, immergerci la testa dentro, ben protetti dal talento.
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