In questo nuovo articolo del Lessico riformista non ci occuperemo di una parola, ma di una espressione che rappresenta la metafora più famosa del socialismo: “il sol dell’avvenire”. Attribuita a Karl Marx ebbe uno straordinario successo in Italia perché venne utilizzata da Giuseppe Garibaldi per giustificare la sua adesione alla Prima Internazionale: “l’Internazionale – scrisse nel 1872 al suo amico Celso Ceretti, il principale organizzatore dell’Internazionale in Italia – è il “sol dell’avvenire”.

A tal punto questa metafora esprimeva tutte le speranze di cambiamento che la lotta per l’emancipazione sociale portava con sé, che il sole nascente divenne l’elemento chiave, insieme con la falce e il martello, di moti simboli dei partititi socialisti e comunisti fino ad anni assai recenti: in quello del Psi lo tolse Bettino Craxi quando negli anni Ottanta del secolo scorso ridisegnò il simbolo del partito puntando sulla rosa nel pugno segnalando la rottura con la tradizione marxista che quei vecchi elementi simbolici richiamavano.

Il “Sol dell’avvenire” racchiudeva infatti una speranza e una utopia: la speranza era che un “mondo nuovo” di eguaglianza giustizia e libertà si potesse realizzare attraverso lo scontro incessante con il nemico di classe – la borghesia capitalista -; l’utopia quasi religiosa era che il “sole” (il mondo nuovo) era collocato in un indistinto “avvenire” e che soprattutto era privo di elementi costitutivi ben definiti: una via di mezzo tra l’Araba fenice e il Paradiso in terra che si prestava a una molteplicità di interpretazioni, di visioni del futuro e di concezioni teoriche che avrebbero attraversato la storia del movimento operaio per tutto il XX secolo e sarebbero state foriere di lacerazioni profonde e di sanguinose rotture.

Su un punto però convergevano: nel ritenere che il tra il vecchio mondo liberaldemocratico, basato sullo stato di diritto e sull’economia di mercato, e il nuovo mondo fondato sull’eguaglianza e il controllo collettivo dei mezzi di produzione si collocasse una frattura evidente e percepibile dalle masse popolari che ne erano coinvolte. Per molto tempo anche nelle concezioni del socialismo più gradualiste e antirivoluzionarie si coltivò l’idea che “il Sol dell’avvenire” si sarebbe realizzato dopo una rottura radicale con il passato dovuta al crollo del capitalismo e al collasso del sistema liberale travolto dallo scontro sociale.

Progressivamente però la definizione stessa dello spazio politico del riformismo tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso comportò una messa in discussione radicale di quel mito da due punti di vista principali. Il primo riguarda la presa d’atto che esso non esista e che la giustizia sociale sia il frutto di un impegno incessante e purtroppo non irreversibile per cambiare il mondo cosi com’è, perché non ce ne è un altro da costruire che non sia l’esistente sottoposto allo sforzo di cambiamento che le forze progressiste e popolari sono in grado di imprimergli alla luce di una tavola di valori e di progettualità alternative a quelle delle ideologie reazionarie e del conservatorismo.

Liberarsi del “Sol dell’avvenire” significava chiudere definitivamente con la stagione del messianismo di stampo religioso e liberarsi dell’utopia del paradiso in terra. Lo sforzo di cambiare il mondo, che restava – e resta – l’obbiettivo del progetto riformista, veniva calato dentro la prospettiva più realista e concreta, ma soprattutto più laica, che esso riguardasse il presente e non il futuro, il mondo nel quale viviamo e non quello che verrà, e che per realizzarlo fosse indispensabile abiurare ad ogni opzione palingenetica.

L’altro punto di vista metteva in luce la progressiva scoperta della faccia cupa e tragica di quel mito, che era tutta interna alle pulsioni totalitarie che accompagnarono la realizzazione del “socialismo reale” il cui consenso poggiava proprio sull’idea che esso rappresentasse la realizzazione del Sol dell’avvenire, che l’Urss di Stalin o la Cina di Mao fossero l’anticamera del paradiso in terra. La evidenziò con una chiarezza sorprendente quarant’anni fa Milan Kundera, il grande scrittore recentemente scomparso, in un dialogo con Philp Roth.

“Il totalitarismo non è solo l’inferno, ma anche il sogno del paradiso – l’antichissimo sogno di un mondo in cui tutti vivano in armonia, uniti da un’unica volontà e da una fede comune, senza segreti l’uno per l’altro. Anche André Breton sognava questo paradiso quando parlava della casa di vetro in cui avrebbe desiderato vivere. Se il totalitarismo non sfruttasse questi archetipi, che sono presenti dentro ognuno di noi e radicati in ogni religione, non potrebbe mai riuscire ad attrarre così tante persone, soprattutto nelle prime fasi della sua esistenza. Ma una volta che il sogno del paradiso inizia a trasformarsi in realtà, la gente comincia a eliminare coloro che sono di impiccio, e così i governanti del paradiso devono costruire un piccolo gulag a fianco dell’Eden. Nel corso del tempo questo gulag diventa sempre più grande e più perfetto, mentre l’adiacente paradiso diventa sempre piú piccolo e piú povero”.

Gulag e Sol dell’avvenire sono due facce della stessa medaglia e per intraprendere la strada di un ripensamento radicale della sinistra in chiave riformista bisogna lasciarsi dietro le spalle entrambi: non solo il gulag con le sue tragedie sanguinarie, ma anche quel “sogno del paradiso” implicito nel mito del “Sol dell’avvenire”, fatto di credenze rivelatesi fallaci, di uomini nuovi abitatori di un mondo perfetto, di religioni civili smentite dalla storia. A noi resta la consapevolezza che il cammino del cambiamento del mondo non ha scorciatoie messianiche, ma affonda le sue radici in un realismo nutrito dall’ “ottimismo della volontà”.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.