La parola uguaglianza irrompe nel lessico politico occidentale con le rivoluzioni americana e francese. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale di Parigi nel 1789 stabiliva che «gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti; quindi le distinzioni sociali non possono esser fondate che sull’utilità comune». Il principio di eguaglianza era in sostanza il riconoscimento che tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge indipendentemente dalle differenze di censo e di condizione sociale e rappresentava ilo sostrato materiale della libertà, che senza eguaglianza non poteva sussistere.

Ma già negli anni immediatamente successivi alcuni esponenti del movimento democratico e in particolare Filippo Buonarroti e Gracco Babeuf, organizzano una congiura contro il governo conservatore che si era imposto con la rivoluzione del 9 Termidoro che aveva posto fine al Terrore, in nome di una concezione radicale dell’egualitarismo di stampo comunistico.

L’eguaglianza restava formale per i congiurati che se non si aboliva la proprietà privata che era il luogo genetico della diseguaglianza. «Si strappino i confini delle proprietà, – si leggeva nel Manifesto degli eguali si riconducano tutti i beni in un unico patrimonio comune, e la patria – unica signora, madre dolcissima per tutti – somministri in misura eguale ai diletti e liberi suoi figli il vitto, l’educazione e il lavoro». In queste poche righe si formulavano alcuni principi che avrebbero nel secolo successivo caratterizzato tutti i movimenti comunistici da Marx a Lenin: la statalizzazione della proprietà era la condizione perché tutti potessero godere in egual misura dei beni comuni. Se si aggiunge che nel Manifesto veniva teorizzata la necessità di un periodo di dittatura della minoranza rivoluzionaria che aveva preso il potere, la straordinaria modernità del pensiero di Babeuf e Buonarroti emerge in tutta evidenza.

Come era prevedibile la congiura fini male con Babeuf ghigliottinato e molti altri congiurati esiliati, ma lanciò un concetto destinato a durare nel tempo fino a giorni nostri, foriero di non poche contraddizioni: le libertà politiche non bastano a fondare l’eguaglianza se essa non è sostenuta dalla giustizia sociale, cioè da istituzioni e leggi che combattano le diseguaglianze che si creano nella società per le differenze di reddito e di ricchezza generati dai sistemi economico. L’estremizzazione di questo concetto ebbe vasta circolazione nei movimenti socialisti fino alla seconda guerra mondiale producendo una polarizzazione negativa tra libertà e eguaglianza, come se la prima fosse non solo un inutile orpello nella lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento e l’ingiustizia, ma un insieme di vuoti formalismo e di falsi principi utilizzati da potere per opprimere i lavoratori. La libertà per Marx è una idea astratta, fondamento dell’alienazione, perché nasconde ai lavoratori la materialità della loro iniqua condizione sociale. L’eguaglianza generata dalla rivoluzione comunista che aboliva la proprietà privava e statalizzava i mezzi di produzione rifondava anche una nuova idea di libertà che negava i formalismi dello stato di diritto ma metteva al suo centro il lavoro e la partecipazione alla costruzione dello stato socialista.

Da qui derivava l’idea che fino all’avvento dei totalitarismi ebbe largo seguito, che la lotta per la libertà, per i diritti civili o per la democrazia non appartenesse agli interessi dei lavoratori che si dovevano concentrare solo sulla lotta per l’eguaglianza che avrebbero realizzato solo nel nuovo stato socialista. Lo scontro tra Bernstein, uno dei dirigenti di spicco della socialdemocrazia tedesca e Lenin agli inizi del ‘900 verteva proprio su questo: per Lenin la democrazia e la libertà erano manifestazioni della falsa coscienza che sviava il movimento operaio dalla realizzazione della rivoluzione, mentre per Bernstein esse invece erano parte integrante della lotta per la giustizia sociale, senza le quali esse sarebbe progressivamente scivolata in un universo autoritario. E fu quello che puntualmente avvenne nell’Urss bolscevica o nella Cina maoista: la realizzazione violenta di una società egualitaria e la creazione di uno stato autoritario pensato come strumento che avrebbe dovuto garantirla contro i suoi nemici esterni e interni, produsse l’esatto contrario: una società di sudditi di una burocrazia potente e oppressiva senza libertà e senza eguaglianza.

Il fallimento del comunismo impose di ripensare all’eguaglianza come parte integrante dello stato di diritto. E nel 1931 fu Carlo Rosselli nel suo opuscolo Socialismo liberale a rompere il muro di una rigida polarità tra libertà e eguaglianza quando scrisse: “Il socialismo inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione. Il marxismo, e ancora una volta bisogna intendere per marxismo una visione rigorosamente deterministica della storia, ha condotto il movimento operaio a subire l’iniziativa dell’avversario, e una sconfitta senza precedenti… Il socialismo, colto nel suo aspetto essenziale, è l’attuazione progressiva della idea di libertà e di giustizia tra gli uomini: idea innata che giace, piú o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo d’ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitú della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero; possibilità di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda al demonio del successo e del denaro.

Nasce da questa sofferta riflessione nata nell’esilio antifascista e in un confronto serrato con il movimento comunista, la convinzione che il futuro dell’eguaglianza è dentro la libertà, ma anche che quello della libertà non può esistere senza l’eguaglianza. Essa ha tracciato un cammino ideale che non solo ha consentito di rifondare su basi nuove il riformismo, ma anche di dare un fondamento ideale allo stato sociale.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.