La prima parola del nostro Lessico non poteva che essere Riforma. Essere riformisti significa innanzitutto credere nelle riforme come strumento fondamentale per modificare l’ordinamento complessivo politico della società… Ma nel tempo questa affermazione ha cambiato significato perché e cambiato il “che cosa” e il “perché” delle riforme.

Nell’Inghilterra della fine del ‘700 e della prima metà dell’Ottocento dove il termine reform è nato, essere riformisti significò dare vita a un vasto movimento politico e sociale per modificare gli ordinamenti politici della vecchia società aristocratica e agro-mercantile e consentire la nascita di quella nuova del liberalismo e dell’industria. In un nesso inscindibile tra libertà e modernizzazione, tra creazione di una economia di mercato e l’allargamento degli spazi democratici, il “cartismo” che fu l’espressione politica più compiuta di questo movimento che attraverso l’Inghilterra per oltre settant’anni declinò il riformismo in un duplice piano: allargamento degli spazi democratici abolendo molti dei vincoli alla partecipazione politica, insieme con le prime riforme sociali: la protezione del lavoro infantile, la riduzione dell’orario della giornata lavorativa e l’abrogazione delle Corn laws protezioniste, che avevano mantenuto elevato il prezzo del pane.

Risultati straordinari per l’epoca per molti aspetti superiori a quelli ottenuti in Francia durante la lunga età delle rivoluzioni dal 1789 al 1848. Ma l’affermazione della società industriale cambia il quadro del che cosa e del perché: al centro delle nuove forme di mobilitazione sociale che si affermano in tutta Europa vi è ora rifiuto del capitalismo che dalla metà dell’Ottocento si è imposto come una gigantesca macchina produttiva capace di distruggere tutti i vecchi mestieri e i tradizionali legami sociali e di piegare il lavoro a mero strumento per la produzione del profitto.

La risposta prevalente che le masse crescenti dei “perdenti” dettero al capitalismo trionfante fu contrapporre alla rivoluzione del capitale la rivoluzione del proletariato, puntando alla sua distruzione e alla creazione di una nuova società basata sulla statalizzazione dell’economia e sull’eguaglianza: una utopia rivoluzionaria di una nuova società ma che fu in grado di determinare nuove forme di lotta collettiva e nuove forme di associazionismo come i sindacati e i partiti operai che, però man mano che il loro peso politico cresceva furono costretti a contraddire l’assunto messianico dell’utopia per misurarsi con la necessità di rispondere nel concreto delle realtà ai bisogni dei lavoratori e partecipare attivamente ai processi di democratizzazione della società.

Le riforme e il riformismo riemergono, dunque, alla fine del XIX secolo come alternativa alla rivoluzione ingaggiando con il massimalismo rivoluzionario un scontro senza quartiere per l’egemonia sulla sinistra che avrebbe dominato per tutto il secolo scorso.

Dopo la seconda guerra mondiale e la vittoria dell’antifascismo, le riforme diventano il fondamento di un nuovo paradigma politico basato sull’assunto che sia possibile tenere testa alla distruzione creatrice del capitalismo salvaguardando le sue straordinarie potenzialità di crescita economica ma al contempo governando i suoi impulsi distruttivi attraverso la creazione di una complessa impalcatura di istituzioni preposte alla redistribuzione dei redditi, alla diffusione del benessere collettivo e alla protezione dei perdenti: era l’intuizione dello stato sociale, come complesso strumento di democrazia sociale in grado, come avrebbe detto Olaf Palme di “tosare la pecora [del capitalismo] senza ucciderla”. Questo paradigma diventa senza alternative man mano che dal 1917 in poi tutte le rivoluzioni socialiste si trasformano in regimi totalitari e l’utopia comunista lascia ovunque il posto a società povere e disumane.

Ma la scommessa dello stato sociale e della democrazia di governare i paradossi del capitalismo ha funzionato mirabilmente alimentando crescita e benessere fino a quando essa ha agito nel perimetro dello stato nazionale che consentiva ai cittadini di misurarne gli effetti e di ampliare costantemente l’orizzonte dei diritti sociali. Ma nel mondo globale la scommessa è saltata perché il rapporto tra distruzione e creazione si dilata nello spazio e le legislazioni sociali nazionali vacillano nell’incapacità di ricucire le fratture che gli animal spirit del capitalismo generano nel corpo sociale su una scala irraggiungibile dagli strumenti di governo fin qui elaborati. Fare riforme per ricostruire il welfare nel mondo globale – la sfida attuale del riformismo.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.