In un lontanissimo 1875 in un piccolo paese tedesco Gotha si svolse il congresso del Partito operaio tedesco che può essere considerato l’atto di nascita della Socialdemocrazia tedesca, che per oltre un secolo sarebbe rimasta il laboratorio politico più attivo del socialismo europeo e del riformismo.

In esso venne presentato un programma – il “programma di Gotha” appunto – che esplicitamente rompeva con la teoria rivoluzionaria marxista che aveva dominato nella I internazionale e che era stata di fatto sciolta due anni prima, ponendo al centro la questione della democrazia e dello stato democratico. In questo piccolo partito era maturata la convinzione che lo Stato non era “il comitato d’affari della borghesia” come pensava Marx e i suoi seguaci marxisti, né tanto meno che ogni sua forma – autoritario, liberale, democratico – fosse indifferente per l’emancipazione del lavoro.

“Lo scopo dello Stato –aveva scritto il suo fondatore Fernand Lassalle (nella foto) – consiste piuttosto, proprio nel mettere in grado i singoli, attraverso l’unione, di raggiungere quegli obbiettivi, e quel tenore di vita, che essi non potrebbero mai raggiungere in quanto singoli, e nel renderli capaci di accumulare un patrimonio di educazione, potere e libertà, che essi, considerati come singoli, non potrebbero possedere”.

Al congresso Marx non partecipò ma scrisse una pamphlet – La critica al programma di Gotha – che può essere considerato il suo più importante scritto politico dopo il manifesto del Partito comunista. In esso ribadiva la sua teoria dello stato ed evocava la dittatura del proletariato come chiave di volta per edificare il socialismo, concludendo in maniera irridente. Le sue rivendicazioni politiche non contengono nulla oltre all’antica ben nota litania democratica: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del popolo, armamento del popolo, ecc. Esse sono tutte rivendicazioni che, nella misura in cui non sono esagerate da una rappresentazione fantastica, sono già realizzate.

Perché sono andato così lontano per cercare il bandolo della matassa della riflessione della democrazia? Perche l’itinerario che ha portato la sinistra europea a riconoscersi pienamente nella democrazia è stato molto più complesso del previsto.

Cento anni dopo Norberto Bobbio in un famoso articolo (Quale socialismo?) tornava sull’argomento per dire che il pensiero marxiano non aveva nessuna teoria dello Stato e men che meno della democrazia, mettendo in luce come il movimento operaio in tutte le sue varianti ideologiche avesse dovuto scontare un ritardo teorico e ideologico su un tema cruciale lungo un secolo, per liberarsi a fatica della convinzione che la democrazia liberale non fosse semplicemente una fase di passaggio da utilizzare in tulle le sue potenzialità favorevoli a sostenere gli interessi dei lavoratori e il loro protagonismo politico, ma il contesto istituzionale e giuridico definitivo nel quale fare vivere l’eguaglianza e la giustizia sociale.

Il riconoscimento che pretendeva Bobbio andava ben oltre il riconoscimento della democrazia come spazio vitale della lotta politica e il rifiuto della rivoluzione che si era affermato nei partiti della Seconda internazionale seppur al prezzo di scissioni e di contrapposizioni radicali, ma chiamava in causa l’abbandono della “presa del potere” come esito della liberazione del lavoro dalla schiavitù del capitale, ma anche come scelta irreversibile di sistema.

Tutta la concezione togliattiana della “democrazia progressiva” e delle “riforme di struttura” esprimeva la convinzione che vi fosse un ”oltre” rispetto alla democrazia liberale e l’economia di mercato: nonostante l’accettazione della Costituzione e la convinta partecipazione alla costruzione della Repubblica democratica, per il Pci la scelta democratica si inseriva in una concezione processuale della democrazia come stadio verso la creazione dello stato socialista: uno Stato lontano dal socialismo reale, che conservasse come affermò più volte Berlinguer tutte le garanzie dello Stato di diritto, ma comunque diverso dalla democrazia liberale basato sul primato dell’eguaglianza e su una struttura economica di stampo statalista. Un disegno confuso nel quale il Pci rimase impigliato fino al suo scioglimento, ma che non scomparse con la sua fine e si è presentato attraverso numerose varianti nella cultura politica dei suoi eredi.

Ma anche nelle risoluzioni del famoso congresso di Bad Godesberg del 1958 nel quale la Spd abiurò il marxismo, condannò definitivamente il comunismo e scelse l’economia di mercato statalmente temperata da welfare, la fedeltà totale alla costituzione – non dissimile dal quella del Pci e del Psi in Italia – non si tradusse in una riflessione compiuta sulla democrazia, in virtù della quale il socialismo stesso avrebbe cambiato di natura e destino. Non dobbiamo dimenticare che in quell’occasione i giovani della Lega tedesca degli studenti socialisti (la SDS) rifiutarono quelle scelte, animando dieci anni dopo sotto la guida di Rudi Dutschke il sessantotto in Germania, a dimostrazione di quanto controverso fosse stato quel passaggio storico.

Ma se non c’è più nessun potere da prendere, se non c’è più nessun modello di sviluppo alternativo all’economia di mercato, se non c’è più nessuno “Stato nuovo” da fondare, se la democrazia è l’alfa e l’omega dell’azione dei lavoratori, del socialismo cosa resta? Infatti scegliere la democrazia ha comportato una mutazione sostanziale dei “presupposti del socialismo” nella misura in cui l’impresa, sentina dello sfruttamento, non solo è risultata migliore dello stato a garantire lo sviluppo, ma ha rappresentato una delle forme più alte della “libertà dei moderni”; se il mito dell’eguaglianza deve cedere il passo alla piena valorizzazione della libertà degli individui, se lo Stato non è la panacea di tutti i mali ma spesso è risultato l’esatto contrario, se della lotta di classe si sono perse le tracce.

Ma in questa epoca di crisi della democrazia colpita al cuore dal combinato disposto del populismo e del ritorno del sovranismo nazionalista quella sintesi tra liberalismo e socialismo che ha rappresentato il risultato migliore di due secoli di conflitti e di aporie non basta più ridefinirla e rafforzarla: c’è una nuova ricerca da avviare per trovare in quei due grandi sistemi di idee e valori le condizioni per nuove ricomposizioni.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.