«Il comunismo sono i soviet più l’elettrificazione di tutto il paese». Con questa famosissima affermazione Lenin sintetizzava gli obbiettivi del primo piano di sviluppo economico (Piano Goelro) lanciato dal governo sovietico nel 1920. L’obiettivo del piano era infatti “[…] l’organizzazione dell’industria sulle basi della moderna e avanzata tecnologia, sull’elettrificazione che… porrà fine alla divisione tra le città e il Paese, renderà possibile l’aumento del livello culturale nelle periferie e il superamento, anche negli angoli più remoti del territorio, dell’ignoranza, della povertà, della malattia e del barbarismo.

Per Lenin dunque il potere sovietico era inseparabile dallo sviluppo nella misura in cui la modernizzazione dell’economia nazionale attraverso l’utilizzazione di tutte le tecnologie disponibili era la condizione materiale indispensabile per generare il socialismo, cioè una società più giusta e equa. Al di là di come questa profezia si realizzò o meglio non si realizzò, quello che qui è importante notare riguarda la convinzione del padre del comunismo secondo la quale senza lo sviluppo era impossibile realizzare l’emancipazione del lavoro e il “sol dell’avvenire” era destinato a rimanere un miraggio.

Negli stessi mesi in cui il gruppo dirigente sovietico promuoveva il Piano, nel parlamento Italiano Filippo Turati pronunciò, – era il 26 giugno del ’20 – forse il suo più importante discorso politico del fondatore del Psi prima che il fascismo travolgesse l’Italia liberale. In esso non solo chiamava la borghesia a non rifiutare una soluzione riformista della crisi dello stato liberale, ma esortava il socialismo italiano a farsi carico della crisi postbellica. Insieme borghesia e proletariato avrebbero dovuto fare un duplice accordo: uno sulle riforme e l’altro sullo sviluppo perché senza entrambi non si sarebbe potuto modernizzare il paese e includere il mondo del lavoro nella compagine di uno stato nuovo, più giusto e più democratico.

Lenin e Turati dunque – seppur agli antipodi per quel che riguardava la concezione del socialismo – condividevano il comune convincimento che senza un costante sviluppo delle forze produttive qualunque trasformazione dei rapporti sociali era irrealizzabile e che in un regime di stagnazione e di bassa crescita era proprio l’eguaglianza e il rafforzamento sociale delle classi lavoratrici ad essere pregiudicati.

Trent’anni dopo, il Piano del Lavoro lanciato da Di Vittorio segretario della Cgil nell’ottobre del 1949, in una chiave che oggi chiameremmo keynesiana, assumeva lo sviluppo come cifra di un accordo politico con gli industriali basato sulle bonifiche territoriali, le grandi infrastrutture, piani edilizi popolari per garantire una ripresa dell’occupazione, in cambio delle quali la classe operaia di fatto accettava una politica dei redditi ridimensionando le richieste salariali: la borghesia rifiutò e il Pci non lo fece proprio perché preferiva Stalin e Keynes.

Anche in questo caso emerge quel filo rosso che legava sviluppo e eguaglianza sociale che fin dal tempo di Marx costituiva la pietra miliare dell’emancipazione del lavoro, nella misura in cui sia nel mondo nuovo del comunismo sia nella via riformista del Welfare la tutela dei redditi a favore delle classi subalterne e disagiate presupponeva la necessità di farsi carico dello sviluppo delle forze produttive: senza crescita la lotta alla diseguaglianza è impedita nei suoi fondamenti, come dimostrano i fallimenti del socialismo reale, ma anche i progetti assistenzialisti della deriva populista in America Latina. Lo sviluppo è dunque “affare del proletariato”, e snodo centrale di tutte le politiche progressiste che assumono la tutela dei deboli e del “perdenti” del capitalismo, come loro stella polare. Se si vuole un mondo più giusto, un mondo più capace di tutelare “chi non ce la fa” non si può sfuggire alla necessità di farsi carico dello sviluppo e delle contraddizioni insite nelle sue concrete dinamiche, che oggi si muovono su scala globale.

Pensare invece che lo sviluppo sia una sorta di intendenza napoleonica chiamata ad adeguarsi alle meravigliose e progressive sorti della redistribuzione e dei redditi garantiti universali in un mondo dominato dalla “decrescita felice” risulta un prospettiva del tutto infondata e fuorviante: il capitalismo non si adegua, la distruzione creatrice che lo anima proseguirà senza vincoli e ostacoli, e le “nazioni falliscono” come ci hanno insegnato Acemoglu e Robinson travolte da debiti pubblici insostenibili e bassa crescita. Questo è il perimetro ideale e politico del campo nel quale il riformismo è chiamato a fare la sua parte: sostenere una “crescita felice” capace di tenere insieme sostenibilità ambientale e diritti dei più deboli, promozione dei meriti e welfare dei bisogni. E una via stretta, irta di rischi, ma non ce ne è un’altra. Le altre hanno già fallito.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.