Tutti conoscono la commovente fotografia che ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in bianco e nero, sorridenti nello scambio di una battuta a poche settimane dalle bombe che li avrebbero massacrati uno dopo l’altro.

Quella fotografia, posta a grandeggiare sulle facciate di molti tribunali d’Italia, riprodotta nelle aule dove i giudici emettono sentenze non sempre giuste in nome del popolo italiano, sbilenca nei piccoli riquadri appesi alle pareti delle cancellerie o srotolata enorme nel manto tricolore sulla scalinata del palazzo di giustizia di Catania, ricorda il lavoro e l’ingiusta fine di due magistrati che è doveroso non dimenticare. Ma quella loro immagine è purtroppo adoperata indebitamente, e troppo spesso è opposta in modo demagogico e sleale a chi della giustizia denuncia errori e abusi: e non è casuale che a farne quest’uso improprio siano anche – forse soprattutto – quelli che non furono sodali e ammiratori di Falcone e Borsellino, ma avversari e calunniatori.

I luoghi in cui si amministra la giustizia non dovrebbero recare simboli né icone, né paroloni rigonfi di retorica (anche “la legge è uguale per tutti” è inutilmente retorico). Quei luoghi dovrebbero essere freddi e ripuliti come chiese scandinave, manifestandosi in purezza e disadorni nella scienza della legge: e nel riserbo, nell’umiltà silenziosa di coloro – i giudici – che sentono il peso di doverla applicare. Ma se proprio dobbiamo imprimere sulle mura della giustizia qualche immagine memorabile, allora che accanto al ritratto di Falcone e Borsellino sia messo quello di Enzo Claudio Marcello Tortora: un’altra fotografia, un altro bianco e nero, con quel cittadino tra due uomini dello Stato che su ordine di un giudice lo portano via in manette. Che viva, quella memoria. Che non cessi di ricordare come quel ferro ai polsi, davanti ai fotografi, fu solo il preludio già osceno di una giustizia micidiale contro un innocente che senza nessuna prova fu imprigionato e processato al suono dell’accusa che lo voleva “cinico mercante di morte”.

Che ci sia anche quell’immagine su ogni facciata dei nostri Tribunali e alle spalle dei giudici che somministrano pene: e che essa rimanga a memoria di quel che il potere può impunemente fare in nome della legge. E a dolorosa ammonizione rivolta a chiunque senza la necessaria cautela, senza l’opprimente timore di sbagliare, senza sensazione della possibile ingiustizia dei propri atti, decida di dedicarsi al mestiere di accusare e giudicare i propri simili.

Sarebbe una giustizia più giusta, più affidabile, più credibile, quella che avesse il coraggio di farsi rappresentare anche dall’immagine della sua vittima più illustre.