Esteri
Netanyahu alla Casa Bianca: prove di tregua con accordo esiguo
Cosa si è negoziato davvero a porte chiuse alla Casa Bianca nell’incontro tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu che potrebbe ridefinire il Medio Oriente per sempre? Se lo chiede anzitutto l’opinione pubblica americana, disorientata dai continui cambi di pensiero di Trump. Se lo chiedono a maggior ragione arabi e persiani, incerti nel leggere le reali intenzioni dietro le strategie ondivaghe della sua politica estera – «forse attacco Teheran, forse no», «Netanyahu si deve calmare, Netanyahu ha ragione», «stimo Putin, Putin mi ha deluso» – e increduli di fronte alla proposta di fare della Striscia di Gaza la «Riviera del Medio Oriente». Se lo chiedono invero anche Russia e Cina. E così pure i membri dell’Ue che, per quanto abbiano chiaro che Trump è e resterà imprevedibile, hanno già accettato (Spagna a parte) di onorare la quota del 5% del Pil destinata a finanziare la Nato.
Intanto, l’accordo scritto a Washington e concordato con gli israeliani prevede un macabro ruolino di marcia. 10 ostaggi saranno restituiti insieme ai corpi di altri 18 ostaggi, secondo il seguente calendario: il primo giorno, 8 ostaggi vivi; il settimo 5 cadaveri; il trentesimo altri 5 corpi; il cinquantesimo gli ultimi due ostaggi; il sessantesimo gli ultimi 8 corpi (gli scambi avverranno senza cerimonie o parate). Il giorno 10, Hamas fornirà prove che confermano quali prigionieri rimasti sono vivi o morti, oltre ai referti medici. Israele darà informazioni complete sui prigionieri palestinesi di Gaza detenuti dal 7 ottobre 2023, in vista del loro completo rilascio. In concomitanza, gli aiuti a Gaza riprenderanno in quantità sufficienti (con il coinvolgimento di Onu e Croce Rossa), mentre già il primo giorno l’esercito di Gerusalemme si ritirerà dal nord di Gaza e il settimo da alcune zone del sud, secondo mappe concordate.
E poi? Questo è il dilemma. C’è chi preconizza una nuova manovra militare (nello Yemen, ancora in Iran), e chi cita invece la «teoria del folle» per interpretare meglio le scelte della Casa Bianca sul Medio Oriente. Noam Chomsky nel 2000 spiegò bene quella teoria, citando un documento ufficiale Usa: «Non è bene dare di noi stessi un’immagine troppo razionale o imperturbabile. Il fatto che gli Usa possano diventare irrazionali e vendicativi, nel caso che i loro interessi vitali siano attaccati, dovrebbe far parte dell’immagine che diamo in quanto nazione. È giovevole per la nostra condotta strategica che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo».
Dunque, Trump è «un leader emotivamente instabile, volubile e imprevedibile» e il cui carattere è quello di «un adolescente che si sente vittima di un’ingiustizia», secondo il ritratto al curaro vergato dal celebre giornalista del Washington Post, Bob Woodward? Oppure è uno statista che sa esattamente cosa sta facendo, ed è meglio accordarsi o accodarsi alle sue volontà? Tertium non datur, a meno di non voler finire come Elon Musk. Di certo, il Trump descritto da Woodward è quello della prima presidenza; dunque, prima della pandemia, della guerra in Ucraina, degli attentati terroristici del 7 ottobre e della furibonda risposta di Israele. Ovvero un’era geologica fa. Quello che si è reinsediato al 1600 di Pennsylvania Avenue per un ultimo mandato è un presidente diverso, senza più freni inibitori e determinato a «finire il lavoro», forte anche della maggioranza al Congresso e alla Corte Suprema.
Per questo è persino pensabile che mezzo milione di palestinesi venga prima o poi forzato a lasciare la Striscia (direzione Sinai): in ossequio a un riequilibrio regionale che già vede l’Iran degli ayatollah ridimensionato nelle ambizioni; in funzione di quegli Accordi di Abramo che daranno la definitiva patente di liceità allo Stato di Israele e una leva in più a Washington nell’area; e in ragione di un Medio Oriente che torna a interessare l’Occidente, in chiave anti-russa e anti-cinese, con i buoni uffici delle nuove potenze nascenti, Arabia Saudita e Turchia, entrambe alleate di Washington. Al tempo stesso, Israele dovrà risolvere internamente le proprie incertezze e contraddizioni, se vuole che la pace attecchisca nel lungo periodo. E già s’ipotizza che, mentre Gaza muore, la Cisgiordania sarà il nuovo epicentro della discordia.
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