A torto o a ragione il Governo ci ha abituato a ritenere che la “necessità” e l’”urgenza” per predisporre decreti legge, possa essere derivata anche dalle sollecitazioni sociali e mediatiche. Appena insediato a Palazzo Chigi l’Esecutivo, sull’onda dell’ennesimo rave party  – a Modena, per Halloween 2022 – decise di regolamentare le iniziative di musica e spettacolo “selvaggio” con un decreto che venne convertito in legge nel gennaio 2023.

Il caso Garlasco tra gossip e italiani criminologi

È stato solo il primo caso di diretta connessione tra attualità di cronaca, amplificazione mediatica e intervento normativo. In queste settimane stiamo assistendo a un evento che potrebbe indurre a un analogo approccio legislativo. Tutto nasce – o rinasce – intorno al caso di Garlasco: 18 anni dopo l’omicidio della giovane Chiara Poggi si ritorna a discutere su vecchie e nuove accuse, su vecchi e nuovi imputati e condannati. Tutto ciò – al di là della proliferazione del gossip che trasforma tutti gli italiani in criminologi ed esperti di rilievi genetici – dovrebbe riproporre una pagina delicata in tema di Giustizia. E potrebbe suggerire una parziale ma significativa riforma in tema.

La condanna di Stasi dopo cinque processi

Andiamo con ordine. Nel “giallo di Garlasco” c’è un condannato in via definitiva – l’ex fidanzato della vittima, Alberto Stasi – a 16 anni di reclusione, con una sentenza di appello-bis, richiesta dalla Corte di Cassazione, dopo due gradi di giudizio che avevano riconosciuto Stasi innocente. Oggi, sull’onda di un mai sopito stupore, circa l’esito del processo di allora (in realtà si sono susseguiti cinque gradi di giudizio: assolto in primo e secondo grado; la sentenza di assoluzione è stata riformata in Cassazione che ha rimandato ad appello bis; condanna in appello bis; e poi la Cassazione ha confermato la condanna) le indagini sembrano orientarsi su un altro sospettato. Dopo 18 anni dai fatti. Come se servisse comunque un capro espiatorio, una vittima sacrificale di fronte a un percorso di giustizia che è parso fin dall’inizio incoerente e farraginoso. Comunque vada per Andrea Sempio – il nuovo indagato – ci sarà sempre un incrocio con la sentenza (le sentenze) su Stasi, che escluderebbero la condizione essenziale del giudizio: “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Il dubbio sulla colpevolezza di Sempio sarebbe permanente, e deriverebbe dal peso della sentenza dell’appello-bis che ha condannato Stasi. Così come per Stasi: la sua condanna sarebbe stata “inquinata” dalle due assoluzioni nei primi due gradi di giudizio, che avrebbero cancellato per definizione e per sempre la condizione di quell’“oltre ogni ragionevole dubbio” che sta come premessa di condanna per l’amministrazione della giustizia. Quando Silvio Berlusconi propose l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione si ispirava a questo. La sostanza venne condivisa anche da un progetto di riforma della Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, un ex presidente della Consulta. Ma si sa quanto sia stato lungo e irriducibile il confronto tra una grande parte della magistratura italiana e l’ex premier. Non se ne fece nulla, nonostante i proclami di Berlusconi alla vigilia delle elezioni del 2022, in vista della nuova Legislatura e del nuovo Esecutivo.

Oggi la questione si ripropone di attualità battente, in forza del nuovo vortice mediatico che appassiona molti italiani, non tanto e non solo per dividersi tra colpevolisti e innocentisti, ma come argomento di caldo interesse pubblico e sociale: c’è di mezzo un fondamentale tema di diritto. Nel brocardo il principio di non colpevolezza – “in dubio pro reo” – viene tradizionalmente tramandato con un aforisma: “Meglio liberare dieci colpevoli che incarcerare un innocente”. Un concetto che si trova già nel Digesto di Giustiniano. Questo principio, nei secoli, è stato riportato come baluardo dello stato di diritto e della lotta contro stati assoluti e totalitari. Oggi è lecito aspettarsi non il solito cicaleccio politichese, ma un atto di indirizzo del Governo. Un atto normativo, una presa di posizione formale.

Perché riportare in appello un assolto?

La Giustizia che interessa ai cittadini è in fondo questa: non per sminuire l’eterno dibattito sulla separazione delle carriere dei magistrati, ma per riformare l’amministrazione della giustizia si potrebbe (si dovrebbe?) partire da questi elementi sostanziali. Perché riportare in appello un assolto? Il ragionevole dubbio circa la sua colpevolezza è già stato inficiato da chi lo ha ritenuto innocente. La voce del ministro Nordio si è alzata con tono flebile e da opinionista. Ha detto più o meno così: “È irragionevole condannare chi è già stato assolto in due gradi di giudizio”. Lo poteva scrivere nella sua lunga e illuminata carriera di commentatore, prima di diventare ministro. Oggi se è dell’idea “che quando una persona è stata assolta non si debba e non si possa riformare la sentenza in peius, a meno che non si rifaccia il processo come accade in alcuni procedimenti anglosassoni” dovrebbe determinare un atto di Governo e promuovere una iniziativa di legge, anche per “necessità e urgenza”. “Quando un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, è difficile pensare che si possa condannare al di là di ogni ragionevole dubbio, come vuole la nostra Costituzione” ha detto Carlo Nordio opinionista. Ora tocca al ministro parlare e fare.