Prima c’è stato Massimo Fini con una dichiarazione addirittura oscena, in cui afferma che non si unirà al cordoglio per le vittime di Sydney perché, a suo dire, a Gaza gli Usa e Israele, “in nome del bene”, farebbero di peggio. Poi arriva la storica Anna Foa su “Il Dubbio” e commenta la strage di Bondi Beach sostenendo, in sostanza, che la guerra a Gaza non ha distrutto Hamas né le altre fonti del terrorismo; anzi ha alimentato il terrorismo e l’antisemitismo.

La gravità di questo ragionamento non sta solo nella sua debolezza e banalità, ma nel fatto che venga condiviso da molti, finendo per diffondere un messaggio stupido quanto pericoloso. Innanzitutto in esso manca l’indignazione per l’attacco. Manca una condanna piena, netta, senza ambiguità, del massacro di Bondi Beach, slegata da qualunque “contesto” o causa esterna. Come se l’antisemitismo avesse bisogno di una spiegazione politica per essere condannato. Come se non fosse un crimine in sé.

Ma il punto più grave riguarda la diaspora ebraica. Legare, anche solo implicitamente, l’antisemitismo alle azioni dello Stato di Israele significa affermare che la sicurezza, la dignità e perfino il diritto alla vita degli ebrei che vivono fuori da Israele dipendono da decisioni politiche su cui essi non hanno alcun controllo. È una forma di ricatto morale: se Israele sbaglia, allora l’odio contro gli ebrei diventa “spiegabile”, se non addirittura prevedibile e giustificato. Questo è esattamente il meccanismo storico dell’antisemitismo: attribuire agli ebrei, ovunque si trovino, una responsabilità collettiva per azioni compiute da altri e altrove. È la negazione dell’individualità morale. È l’idea che gli ebrei non siano mai semplicemente cittadini, individui, persone, ma sempre rappresentanti di qualcos’altro, sempre colpevoli per delega.

C’è poi la questione decisiva della responsabilità morale. Ogni atto terroristico è responsabilità di chi lo compie. Spostare anche solo in parte questa responsabilità su Israele – o su un generico “contesto” – significa ridurre l’autonomia morale dei terroristi e trasformare l’odio antisemita in una reazione condizionata, pressoché inevitabile, automatica. È un rovesciamento che non si può accettare in alcun modo: finisce per assolvere i carnefici e abbandonare le vittime in una zona grigia, come se la loro morte non fosse mai del tutto ingiustificata.

Difendere la diaspora significa dunque difendere un principio non negoziabile: nessun ebreo, in nessun luogo del mondo, deve essere chiamato a rispondere delle azioni di uno Stato per meritare sicurezza, solidarietà o cordoglio. Mettere anche solo in discussione questo principio non è una critica a Israele: è un’indiretta legittimazione dell’antisemitismo.