L’omicidio di Davide Giri, il ricercatore italiano che studiava alla Columbia University, ha fatto molto clamore, come giusto che sia. Solo qui in Italia, però. Perché a detta di Federico Rampini, corrispondente dagli Stati Uniti, prima per Repubblica e ora per il Corriere, la tragedia del nostro connazionale ha trovato poco spazio sulle colonne dei principali quotidiani americani, rilegata alle “pagine locali, con scarsa visibilità”.

In particolare non ci sarebbero abbastanza approfondimenti sull’assassino, Vincent Pinkney, un 25enne afroamericano che appartiene “a una delle più feroci gang newyorchesi”. Pregiudicato, arrestato diverse volte per aver commesso crimini violenti, “era a piede libero nonostante fosse sospettato di aver commesso un’aggressione recente. Si sa quasi tutto di colui che ha selvaggiamente aggredito il ricercatore italiano mentre rientrava alla Columbia University dopo una partita di calcio”. Nessuna di queste notizie è visibile sul giornale di riferimento per la città e per la nazione, il New York Times, “distratto e reticente su una tragedia avvenuta nel cuore di Manhattan. Nome, cognome, età dell’assassino sono le scarne notizie fornite ai lettori” scrive Rampini.

E se alla prima uscita della notizia non sono seguiti aggiornamenti, anche l’articolo originario rimane “evasivo e lacunoso”. Di Pinkney che dopo aver pugnalato Giri alle 22.55 di giovedì all’angolo fra Amsterdam Avenue e la 123esima Strada, feriva un turista italiano, Roberto Malaspina, a poca distanza sulla Morningside Drive, “non ci sono ulteriori approfondimenti. Perché su Pinkney i lettori del New York Times non sanno nulla, a parte l’età e il cognome?”.

Rampini ha condiviso la sua riflessione: “L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo, sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni”.

“Per trovare queste notizie – continua Rampini -, diffuse dalle forze dell’ordine, bisogna andare sui siti di qualche tv locale, oppure di un tabloid populista, il New York Post. Il New York Times ha scelto una reticenza che sconfina nell’autocensura, coerente con la linea editoriale degli ultimi anni. I canoni del giornalismo americano sono stati stravolti, in particolare durante gli anni di Donald Trump quando nelle redazioni dei media progressisti è diventato un vanto praticare il ‘giornalismo resistenziale’. La ricerca di equilibrio o imparzialità è stata considerata una debolezza: il fine giustifica i mezzi.

In particolare Rampini cita come causa dello stravolgimento dei canoni giornalistici il movimento antirazzista partito con l’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente di polizia “bianco” il 25 maggio 2020 a Minneapolis, Black Lives Matter. “I principali quotidiani hanno abbracciato slogan come ‘tagliamo fondi alla polizia’. Gli episodi di saccheggi e violenze avvenuti con il pretesto dell’antirazzismo sono stati minimizzati. Il New York Times si è fatto promotore di un’iniziativa, The 1619 Project, che rilegge l’intera storia americana come una derivazione dello schiavismo che condizionerebbe tuttora ogni istituzione, l’intero sistema legale, la cultura e la scuola. Una purga all’interno della redazione ha allontanato diversi reporter che non erano allineati con il radicalismo di Black Lives Matter“.

Infine la chiusa che farà storcere più di qualche bocca: “‘Le vite dei neri contano’ è uno slogan che per Black Lives Matter sembra applicarsi solo quando gli assassini sono bianchi e razzisti; la stragrande maggioranza delle morti violente, tra i Black come tra gli ispanici, passano inosservate perché i killer appartengono allo stesso gruppo etnico. La reticenza del Times include il tema della scarcerazione facile. Il giornale appoggia le procure ‘progressiste’ che mettono in libertà anche criminali pericolosi, professionisti della violenza, che rappresentano una minaccia costante per la comunità”.

“All’indomani della morte di Giri – conclude Rampini – un editoriale della direzione confermava questa linea, attaccando quei procuratori che non procedono abbastanza speditamente a svuotare le carceri. Il dolore per l’assurda morte di Giri non verrebbe risarcito da una diversa attenzione della stampa, però questa vicenda offre uno sguardo inquietante sul ‘nuovo giornalismo’, militante e condizionato dalla sua agenda ideologica. Anche la cronaca nera si piega a questa logica tribale”.

Riccardo Annibali

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