Caro Claudio,
certo, il compromesso storico e i tre articoli su Rinascita, dicevi. Piombati come una bomba nel nostro dibattito. Ma come, non era la DC il nostro nemico? Il partito dei padroni e dei ladroni? I servi degli americani? Alle Feste dell’Unità quando dopo la fine della serata si restava a chiacchierare e a bere si finiva per cantare “vi ricordate quel 18 aprile d’avere votato democristiani senza pensare all’indomani a rovinare la gioventù…”, Contrordine compagni! Ma il PCI era un partito basato sul centralismo democratico, quindi se lo diceva il Segretario bisognava stare buoni e cercare di capire, e poi il carisma di Berlinguer era enorme e la fiducia in lui riposta altrettanto grande, e quindi via a interminabili discussioni, attivi di sezione, assemblee, pranzi e cene infiniti in cui il tema era sempre quello: ok, ma come facciamo ad andare d’accordo con i forchettoni? E poi, visto che Berlinguer partiva dal golpe militare cileno contro il governo democraticamente eletto, non era stata anche la DC cilena complice silente di quel golpe? Sì, certo, poi si era ravveduta ed era passata all’opposizione, ma intanto la tragedia era già avvenuta.

Devo dire, con gli occhi del dopo, che quella del compromesso storico fu una delle migliori intuizioni di Berlinguer, basata sulla comprensione profonda di come fosse fatta e orientata l’opinione pubblica italiana. E soprattutto di quale fosse la collocazione internazionale dell’Italia. Ma fu un tentativo quasi disperato. I tempi non erano maturi né fra di noi né fra i dc. Come si vedrà in seguito negli anni drammatici dell’unità nazionale e dell’assassinio di Moro, Nel ’73, quando Berlinguer scrisse il primo articolo, il PCI era ancora largamente sovvenzionato dal PCUS e Cossiga era ancora il referente della struttura “stay behind”, meglio nota come Gladio, di cui allora quasi nulla si sapeva, nata per fronteggiare anche con le armi un’eventuale rivoluzione ispirata dai sovietici, e sciolta ufficialmente solo agli inizi degli anni ‘90. Se pensi che anni dopo Cossiga sarà l’ispiratore del primo governo guidato dal “comunista” Massimo D’Alema nel 1998 – e tu ne sai qualche cosa – ci si rende conto di quali fossero gli intrecci e le contraddizioni dell’Italia degli anni ‘70 e quanto ci ha messo il PCI ad uscire dalla condizione di “doppiezza” su cui lo aveva forgiato Togliatti. Ma è mai poi veramente uscito dalla doppiezza? Ne riparleremo. Intanto in quegli anni si teneva un occhio a Mosca e alla rivoluzione socialista e un occhio alla struttura democratica e repubblicana dell’Italia. Berlinguer forse lo aveva capito o forse semplicemente intuiva e ragionava alla ricerca di una soluzione. È chiaro, col senno di poi e certamente non a me, che di politica allora masticavo poco, che la proposta del compromesso storico avrebbe dovuto portare ad altri passi che sarebbero venuti con il tempo, ma sempre troppo tardi.

Nel 1976 l’intervista di Berlinguer a Pansa con la dichiarazione di sentirsi più al sicuro sotto lo scudo della NATO, quindi una scelta decisamente occidentale. Nello stesso anno Cervetti, dirigente importante del partito, andò a Mosca e cominciò a gettare le basi per la fine dei finanziamenti sovietici. Il PCI aveva ottenuto un importante successo elettorale e con esso una bella quota di finanziamento pubblico che permetteva il distacco. Ma intanto il PCI ribolliva, nella sua base e fra i suoi militanti, di sentimenti anti democristiani, anticapitalisti e antimperialisti, quindi anti americani. A questo proposito, permettimi un aneddoto. Come sai nel 1979 venni chiamato a Roma per preparare la successione a D’Alema, allora segretario della FGCI nazionale. Tu c’eri stato prima di me. Segretario divenne Fumagalli, milanese come me. Era molto ortodosso e il rapporto con l’URSS restava un tema divisivo. In una delle tante discussioni in cui alcuni di noi subivano l’accusa implicita di essere un po’ filoamericani, con il mio solito spirito polemico domandai: “Va bene, allora ditemi una cosa. Se foste costretti ad andare via dall’Italia e dovreste scegliere fra gli USA e l’URSS, dove sceglierete di vivere?”. Con mio massimo stupore, alcuni, non farò i nomi, risposero senza esitazione: l’URSS. Io là c’ero stato, guidando una delegazione della FGCI, e avevo visto l’infinita tristezza di quella vita, i discorsi pomposi e retorici e tutto il resto. Era l’anno dell’invasione sovietica in Afghanistan che il PCI aveva condannato. E a me toccò subire ogni sorta di accuse. Mai e poi mai avrei scelto di vivere laggiù. Altri tra noi, mio caro, invece lo pensavano. Ma ti rendi conto?

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Caro Chicco,
ma certo che me ne rendo conto, lo potrai capire meglio se ti racconto il mio stato d’animo quando mi capitò, per la prima volta, di andare “di là”, in uno dei paesi del blocco sovietico. Era il 1978, io rappresentavo la FGCI al congresso della organizzazione giovanile del Partito comunista bulgaro, la Gioventù Dimitroviana (dal nome di George Dimitrov, primo capo della Bulgaria comunista, eroe nazionale morto a Mosca nel 1949). Nella turnazione dei viaggi all’estero, mentre gli altri figicciotti venivano spediti a Cuba o in Vietnam, a me toccò il più grigio dei paesi dell’Est, obbedientissimo satellite dell’URSS di Breznev. Prima di tutto dovetti passare dalle Botteghe Oscure a prendere ordini da Pajetta, che mi raccontò quanto fosse stato grande Dimitrov e quanto fosse piccolo e ottuso Todor Zhivkov, che lo aveva sostituito e reggeva il Paese come una caserma. Ma non mancò di dirmi che lì avrei dovuto comportarmi nella maniera giusta, riaffermando l’autonomia del nostro partito, sempre però senza offenderli.

Mi ritrovai così in una Sofia spettrale, accolto all’aeroporto come un’autorità da dirigenti dell’organizzazione “giovanile”, il meno anziano dei quali aveva almeno 50 anni, impettiti, freddi e scostanti. Attraversammo stradoni deserti dentro un’auto di rappresentanza che doveva essere una ZIL di terza mano (le auto del potere rosso che i sovietici, secondo me, regalavano ai bulgari invece di rottamarle); per fortuna lungo il percorso non ebbi l’”onore” che avrebbero riservato qualche anno dopo a Berlinguer, che tentarono di uccidere in un falso incidente stradale. Insieme alle altre delegazioni straniere rimasi chiuso per un paio di giorni in un albergone, passando il tempo a incontrare le organizzazioni giovanili che vedevano noi italiani come un punto di riferimento (i sudamericani, gli spagnoli), guardato a vista da sospettosi funzionari locali, mangiando cibo orribile e brindando con pessimo alcool. L’irreparabile accadde quando iniziò il congresso, che si svolgeva in una sala enorme, stipata da qualche migliaio di dirigenti, prevalentemente maschi, tutti con vestito d’ordinanza e sempre almeno ultraquarantenni.

Gli unici giovani che vidi erano i pionieri, bambini di dieci-dodici anni con occhi spenti e tristi che aprirono la cerimonia congressuale sfilando a tempo di marcia, agitando bandiere rosse e nazionali, e omaggiando Zhivkov con discorsi gonfi di retorica e mazzi di fiori. Io ero collocato sul palco delle autorità, ma in terza fila. Nella prima, accanto al dittatore c’era la nomenklatura del partito e quella della Gioventù Dimitroviana, mentre i posti d’onore erano riservati all’organizzazione giovanile del Pcus (il Komsomol) e dei partiti fratelli dell’Est; a seguire, le delegazioni degli altri, secondo una scala che andava dai movimenti rivoluzionari del terzo mondo a quelli che non contavano niente. E, guarda un po’, noi italiani eravamo nascosti lì, tra quelli che non contavano, malgrado rappresentassimo un’organizzazione forte e radicata, espressione giovanile del mitico PCI.

Insomma, ero lì ad assistere a questo rito funereo, rimuginando sullo spettacolo kitsch, pronto a riferire di ritorno al Bottegone come ci stessero trattando male, e masticavo stancamente un chewing gum, quando ebbi l’impressione che il dittatore – proprio lui – mi stesse guardando, e dopo un po’ si catapultò da me un suo uomo, rimproverandomi aspramente perché avevo tra i denti la famigerata gomma americana. Grave, gravissima maleducazione, intollerabile mancanza di rispetto. Ti sembrerà banale, ma fu in quel momento che mi chiesi “dove mi trovo, che ci faccio io qui?”. Oltrecortina ci sarei tornato qualche anno dopo, nel 1983. A capo di una delegazione di responsabili “stampa e propaganda” delle federazioni del PCI visitai per una settimana l’Unione Sovietica, all’epoca guidata dall’ex-capo del KGB Andropov.

Anche in questa occasione dovevo difendere strenuamente le nostre posizioni, e la mia lucidità era messa a rischio dalla sequela di brindisi mattutini a base di vodka con annessi discorsini. A farmi da traduttore – impeccabile, colto, sornione – era la nostra guida Anatolij Orel, un ucraino che sarebbe diventato ambasciatore in Italia negli anni ‘90. Quando lo incontrai in Italia nella sua nuova veste, mi confessò che i miei discorsetti appassionati li traduceva sempre come gli pareva, per non contrariare gli occhiuti burocrati sovietici presenti agli incontri. A Roma ci facemmo un sacco di risate con Anatolij. Erano le risate di un uomo finalmente libero.

Chicco Testa e Claudio Velardi

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