Un nuovo rapporto pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale “Climate Crossroads: Fiscal Policies in a Warming World” denuncia come l’attuale politica di transizione energetica mondiale non sia sostenibile dal punto di vista economico. Secondo l’FMI, il rapporto debito pubblico/PIL a livello mondiale è destinato ad aumentare l’1% l’anno nel periodo 2023-2028 con conseguenti alti livelli di indebitamento e deboli prospettive di crescita. Viene sottolineato il fatto di come molti stati stiano adottando strategie di riduzione delle emissioni di carbonio basate principalmente su azioni di spesa, quali investimenti pubblici e incentivi per le energie rinnovabili.

Pur essendo misure positive, il rapporto evidenzia come ne conseguano alti costi per la collettività. In particolare, viene evidenziato come perseguire l’obiettivo di “ridurre a zero le emissioni di carbonio entro il 2050” (obiettivo che, ad esempio, l’UE si è data) solamente con misure di spesa, comporterebbe un aumento tra il 45 e il 50% del debito pubblico per i paesi più inquinanti. Allo stesso modo però, non agire, comporterebbe effetti climatici sempre più devastanti, come quelli che stiamo sperimentando negli ultimi mesi. Il rapporto identifica come possibili soluzioni di diversificare le misure coinvolgendo il settore privato offrendo “incentivi verdi” per stimolare ulteriori investimenti e alleviare il peso sulle casse degli stati, e conseguentemente sulle tasche dei cittadini.
Il trilemma fra costi climatici, sostenibilità fiscale e costi politici è estremamente attuale in Europa. Con il Green Deal, l’UE ha adottato ambiziosi obiettivi climatici e una serie di misure per raggiungerli. Però la loro implementazione sarà molto complicata, per ragioni economiche, strutturali e politiche. Dal punto di vista economico, le stime della Commissione Europea dello scorso anno quantificano in 520 miliardi di euro l’anno la quota di investimenti aggiuntivi necessari per i prossimi dieci anni per garantire la transizione climatica.

Dal punto vista strutturale, mentre assistiamo a una politica climatica sempre più integrata a livello europeo, la politica energetica, fondamentale per raggiungere gli obiettivi prefissati, rimane ancora estremamente frammentata. È bene ricordare infatti che, nonostante una forte azione per raggiungere in maniera comune determinati obiettivi (sicurezza approvvigionamenti, promozione efficienza energetica ed energie rinnovabili, interconnessioni ecc.), i Trattati prevedono che ogni stato membro abbia il diritto di decidere autonomamente su come soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Ne deriva che l’attuale target comunitario per le energie rinnovabili (42,5% del totale entro il 2030) è implicitamente frazionato in diversi obiettivi nazionali, mentre il target per l’efficienza energetica (36% di riduzione del consumo di energia entro il 2030) è vincolante solo a livello europeo.

Dal punto di vista politico, i partiti politici di stampo sovranista stanno portando avanti una battaglia ideologica, e a volte addirittura negazionista, sui cambiamenti climatici. Ciò, unito alla forte opposizione di larga parte dei settori produttivi (agricoltura, edilizia, trasporti) sta rendendo i vari governi europei (Germania su tutti) più prudenti e meno ambiziosi, viste le future scadenze elettorali (Elezioni Europee del 2024 in primis). Nel frattempo, il nuovo Commissario europeo per il Green Deal, lo slovacco Maroš Šefčovič (che ha ereditato le deleghe di Timmermans insieme all’olandese Hoekstra, che si occuperà di clima), ha subito affermato di voler aggiungere un obiettivo intermedio (ridurre del 90% le emissioni dei gas serra entro il 2040) e incrementare il dialogo con industria e agricoltori per convincerli della necessità della transizione ecologica e della sua convenienza sul piano economico.
I legislatori, europei e nazionali, dovranno essere in grado di compiere scelte coraggiose ma allo stesso tempo bilanciate su clima ed energia. Il rischio di fallire è dietro l’angolo.

Niccolò Querci

Autore