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Politica in pressing sulla magistratura, Guido Piffer: “I giudici devono mantenere il coraggio della decisione”
Le definisce «affermazioni che, se sono state effettivamente rese, lasciano sconcertati», Guido Piffer, magistrato già presidente di sezione penale della Corte d’Appello di Milano e autore di prestigiose pubblicazioni giuridiche. Stiamo parlando dell’uscita di Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, all’indomani della sentenza torinese sul caso Regna. L’onorevole di Coraggio Italia ha infatti tenuto a far sapere ai media di aver «già provveduto alla richiesta degli atti del procedimento», con l’intenzione di portare in ufficio di presidenza la richiesta di audizione dell’estensore del provvedimento.
Frasi che incarnano il prototipo della violazione di indipendenza della magistratura, un’invasione di campo davvero esecrabile.
«La ragione del mio sconcerto nasce dalla loro inconciliabilità con alcuni capisaldi dello Stato di diritto: una commissione parlamentare convoca un giudice per chiedere conto di una sua sentenza? Di fronte a questa confusione si avverte l’esigenza di rimettere “ogni cosa al suo posto”».
Siamo comuni estimatori dell’ultima fatica di Massimo Luciani…
«Infatti riconoscete la citazione. Ricordo innanzitutto che la decisione del giudice penale comporta un’attività complessa: la valutazione delle prove (per es. dell’attendibilità o inattendibilità dei testimoni); la ricostruzione del fatto e la verifica della sussistenza o insussistenza della responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio; la qualificazione giuridica del fatto e, nel caso di condanna, la quantificazione della pena, coinvolgente la valutazione del disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, il che implica spesso delicate scelte valoriali. È il campo dominato dal principio del libero convincimento che non si risolve in un arbitrio, perché il giudice deve dare conto di tutti i passaggi del suo ragionamento in una motivazione adeguata e coerente. Qualora la decisione non sia condivisa dalle parti, la motivazione potrà passare al vaglio di un giudice superiore ed in ultima istanza della Cassazione. Il richiamare questi principi e quindi l’indipendenza della magistratura, non significa sminuire l’importanza del corretto esercizio del diritto di critica, perché entrambi sono coessenziali: di entrambi vi è un estremo bisogno, per superare l’assurda polarizzazione tra la denigrazione ingiustificata e l’esaltazione acritica della magistratura, dovuta al fatto che spesso manca quell’onestà intellettuale che permette di superare i pregiudizi ideologici (di qualunque tipo) per poter conoscere la realtà».
Cadremmo anche noi in errore se, ignorando gli atti e non avendo assistito alla formazione della prova, volessimo dare i voti alla sentenza torinese.
«Senza entrare nel merito della decisione in questione, non si può certo dire che essa non sia sorretta da un’ampia motivazione, sicché appare non costruttiva l’affermazione di chi senza fornire alcuna motivazione sostiene che invece di assolvere per i maltrattamenti il giudice avrebbe dovuto condannare: se in coscienza egli ha ritenuto insussistente la prova di tale reato ed ha motivato tale decisione, sarà l’eventuale giudizio di appello a verificare la correttezza della decisione. Sono principi scontati di civiltà giuridica. Riguarda invece un profilo completamente diverso la stigmatizzazione del linguaggio usato in alcune frasi della sentenza, perché inutili ai fini della decisione: al riguardo vi è stato un giudizio unanime da parte di chi ha commentato la sentenza ed io condivido tale rilievo critico, perché negli atti giudiziari la continenza espositiva è irrinunciabile. Esprimendo questa valutazione critica (che peraltro riguarda un aspetto marginale della motivazione) si rimane ancora nel legittimo e utile esercizio del diritto di critica».
Principi scontati fino a un certo punto, visto il livello dell’informazione sui temi giudiziari: sembra che la materia «codice rosso» imponga per ciò solo una condanna al massimo della pena. Fuori da questo ambito, le assoluzioni passano sotto silenzio e a far clamore sono le indagini, anche molto prima dell’eventuale condanna.
«È un fenomeno noto e spesso aspramente criticato, ma senza alcun esito positivo. In casi come questo colpisce la “creazione” e l’orientamento della “indignazione” dell’opinione pubblica, senza la minima preoccupazione di ricercare e rispettare la realtà dei fatti. Questo comporta una manipolazione del senso di giustizia sostanziale, che è anche una risorsa preziosa nell’esercizio della stessa giustizia formale. Ma per non essere tradito il senso di giustizia deve basarsi su dati di realtà non manipolati, in una parola sulla verità».
Domani i giudici si sentiranno liberi di assolvere, quando non riterranno raggiunta la prova della colpevolezza, per reati capaci di colpire il comune sentimento di solidarietà verso una tipologia di vittima (la donna, il bambino, l’anziano, il malato)?
«La domanda coglie un problema reale. Secondo la mia esperienza, una delle doti fondamentali del giudice deve essere il coraggio della decisione, che presuppone la capacità di rendersi conto e di superare non solo i condizionamenti esterni (derivanti dai molti ed eterogenei “poteri” presenti nella società), ma anche i condizionamenti derivanti dalle proprie concezioni culturali e politiche, o legate alle aspettative di carriera, ecc. Soprattutto in materie “sensibili”, sulle quali si registrano radicali contrapposizioni culturali nella società, il violento attacco ad un magistrato proveniente dagli indicati poteri ed esorbitante i limiti di un corretto diritto di critica può sicuramente condizionare un magistrato, inducendolo a non prendere una decisione obiettivamente corretta per il timore (magari inconscio) delle reazioni che la decisione può suscitare. Né va dimenticato che sottili condizionamenti negativi possono riguardare anche la valutazione delle prove, per esempio dell’attendibilità di certe testimonianze. Questi condizionamenti impediscono di vedere la realtà in tutti i suoi fattori e di applicare correttamente la legge. È un lavoro su di sé che richiede la capacità di obiettivare come si sta ragionando mentre si decide e quindi di esplicitare cosa incide negativamente su tale ragionamento per contrastarlo. Una critica pacata e motivata delle sentenze può invece favorire una presa di consapevolezza da parte del magistrato delle implicazioni valoriali coinvolte nelle sue decisioni e quindi può aiutarlo a superare eventuali condizionamenti, favorendo decisioni corrette».
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