La storia ci tiene in ostaggio. Appena muta il nostro sguardo sul passato, gli eventi trascorsi assumono un’angolatura diversa. Ogni generazione elabora la tradizione raccolta dai padri e, nel momento in cui la interpreta, la modifica. Si tratta di un travaglio doloroso perché quasi sempre bisogna passare sopra le ossa dei morti. Ricucire gli strappi. Asciugare le lacrime. Andare avanti. È vero: il tempo lenisce le ferite, tuttavia potrebbe anche esacerbarle. Mettiamoci l’anima in pace: non finiremo mai di litigare.

Quand’ero piccolo non amavo i fumetti. Facevo un’eccezione per Guerra d’eroi, sulla Seconda Guerra Mondiale, che m’intrigava assai. Da adulto credo di aver visitato quasi tutti i campi di battaglia europei. Omaha Beach, Kursk, Berlino… Senza dimenticare Anzio, Nettuno, Cassino e la Linea Gotica. A Dresda ho girato intorno alle cattedrali nere bruciate. A Mosca ho cercato il punto di massima espansione raggiunto nel 1941 dalle avanguardie della Wehrmacht: accanto allo stelo commemorativo c’era un magazzino Ikea. A Volgograd, come oggi si chiama Stalingrado, sono arrivato sino in cima all’enorme statua che svetta sul Mamev Kurgan. Volai apposta in Giappone solo per vedere Hiroshima e Nagasaki. La stessa cosa sarei disposto a fare oggi pur di toccare le statue di bronzo del Douglas MacArthur Landing Memorial sulla spiaggia di Leyte, nella rievocazione del generale americano che guidò sulla battigia i suoi ufficiali alla riconquista delle Filippine.

Ecco perché un libro come Prigionieri della storia (Utet, traduzione di Chiara Baffa, pp. 322, 24 euro) di Keith Lowe per me assomiglia a una pietra incandescente. Lo studioso inglese, nato a Londra nel 1970, autore di un testo fondamentale sul bombardamento alleato di Amburgo, non ancora tradotto in italiano, e del Continente selvaggio (Laterza, 2013), sui terribili anni successivi alla guerra, si chiede cosa possano insegnarci, oggi, i mausolei, i templi, i santuari costruiti dopo la fine del secondo conflitto novecentesco. Per rispondere a questa domanda prende in esame cinque diverse tipologie monumentali: quelle nate allo scopo di celebrare gli eroi (Volgograd, Varsavia, Arlington, Leyte, Londra e Bologna); i martiri (Amsterdam, Nanchino, Seul, Jersey City, Budapest, Auschwitz), i mostri (Lubiana, Tokyo, Predappio, Berlino, Grūtas Park, in Lituania), le apocalissi (Oradour-sur-Glane, Berlino, Amburgo, Hiroshima e Nagasaki) e le rinascite (New York, affresco della sala del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Gerusalemme, Coventry, Liberation Route Europe).

Ognuno di questi capitoli rappresenta un nodo spinoso che l’autore si guarda bene dal voler sciogliere. Restano negli occhi, fra le tante pietre dello scandalo, la scultura di Wu Weishan all’ingresso del Memoriale del massacro di Nanchino, perpetrato dai giapponesi nel 1937, raffigurante una madre con il cadavere del suo bambino; il drammatico Katyn Memorial nel New Jersey, proprio di fronte a Manhattan, nel ricordo del massacro degli ufficiali polacchi da parte delle truppe sovietiche; le rovine di Oradour, paesino francese distrutto per rappresaglia dai nazisti e mai più ricostruito; il Sacrario dei caduti partigiani in piazza del Nettuno, a Bologna, nato dall’iniziativa spontanea della popolazione locale e presto diventato un simbolo nazionale dell’antifascismo: quest’ultimo mi riguarda direttamente perché fra le duemila fotografie di resistenti, ognuna accompagnata da nome e cognome, compare anche quella di mio nonno materno, Alfredo Cavina, della 36a Brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti a Pieve di Quinta il 20 luglio 1944, insieme ad altri nove prigionieri. L’immagine che lo ritrae però è sbagliata, appartiene a un’altra persona.

Dico questo per rafforzare il discorso impostato da Keith Lowe sulla potenziale fallibilità di ogni ricostruzione postuma. Come ci hanno illustrato i filosofi: un fatto, fuori dalla sua flagranza, rischia di corrispondere alla visione di chi lo riporta. A ben riflettere, è stato Sant’Agostino per primo a metterci in guardia sull’illusione storicista. Poi Leopardi ha sghignazzato sulle “magnifiche sorti e progressive”. Dovremmo quindi arrenderci al relativismo?
No. Le ragioni e i torti non possono essere confuse: devono restare lì, incise nel marmo. Obelischi perenni che pure, dobbiamo metterlo in conto, verranno prima o poi sradicati dalle loro originarie sedi, proprio come è accaduto alle gigantesche statue dei dittatori sovietici che un previdente imprenditore lituano, Viliumas Malinauskas, acquistò dall’ex repubblica baltica, per trasferirle in un parco monumentale a Druskininkai, nel sud del paese, trasformandole in attrazioni, a pagamento, per grandi e piccini.

Con effetti paradossali e rigeneranti: «Quando gli uccelli fanno il nido tra le dita di Stalin e Lenin e i bambini si arrampicano sui fucili che un tempo erano puntati contro i membri della Resistenza lituana, i simboli del potere dello stato non appaiono più così spaventosi». Come spiegare ai più piccoli, impegnati a nascondersi dietro ai 2711 blocchi rettangolari di cemento posti al centro di Berlino, che quel memoriale è stato edificato da Peter Eisenman in onore di tutti gli ebrei assassinati d’Europa? «La prima volta che ci portai mia figlia dodicenne», scrive Lowe, «non capì di cosa si trattasse. Il suo primo pensiero fu che fosse una sorta di enorme parco giochi: stava per arrampicarsi su uno dei blocchi e saltellare da uno all’altro, e si mortificò quando le spiegai perché sarebbe stato inappropriato».

Più trascorrono gli anni, più la memoria, per essere condivisa, deve passare attraverso un cerchio di fuoco. Gli eroi non durano a lungo. Persino i martiri talvolta hanno qualcosa da nascondere. I mostri purtroppo ci aiutano ad alleggerire il peso della responsabilità. Le apocalissi ci ammoniscono sul prezzo della vittoria. Sotto ogni rinascita palpitano gli scheletri. Tutti abbiamo bisogno di una cornice mitologica per sognare un mondo nuovo.