Pubblicato per la prima volta negli anni Settanta, e da allora mai più ristampato, torna in libreria per Cliquot Edizioni “Prima e dopo” di Alba de Céspedes, con la prefazione di Nadia Terranova. “Un effetto straniante che può causare la lettura di Prima e dopo”, scrive Terranova, “per chi vi accede dopo aver letto le opere più note di de Céspedes, è nell’incontro con una protagonista diversa dalle donne sottomesse e relegate dei suoi romanzi più noti”. Irene si è già opposta all’agiatezza che la madre borghese le ha assicurato sin lì, così come ha già rifiutato l’amore di Maurizio e l’ipotesi di un matrimonio in grado di metterla in salvo dalle piccole e grandi incombenze del quotidiano che ogni donna indipendente è costretta ad affrontare senza sponde. La linea d’ombra fra il prima e il dopo non si situa, dunque, sul crinale di una scelta di libertà.

Ma scaturisce dal suo contrario. Dal giorno in cui la domestica, Erminia, abbandona Irene per tornare a prestare servizio nella casa della signora Pasinotti, a cui riserva un odio di classe viscerale e profondo. La protagonista vive questa separazione nella scintilla che un gesto così inaspettato produce sulle cose. Entra furtiva nella stanza di Erminia, spia i mobili che in passato erano nella sua camera da ragazza. L’armadio è vuoto e anche i cassetti. Dal piano del comò sono scomparse le fotografie di famiglia e le immagini dei santi che davano a quei mobili borghesi un aspetto vissuto e popolare. Pietro, l’uomo con cui Irene ha una relazione senza pretese, vissuta nella condivisione della curiosità intellettuale e degli interessi politici, è fuori per un congresso: “D’un tratto, per la prima volta, valutai tutta la difficoltà di vivere fra persone che non sono vincolate a noi, come i familiari, e che bisogna ogni giorno conquistare, trattenere”.

Ciò che più colpisce è l’aderenza di certi pensieri con un mondo, il nostro, del tutto trasfigurato eppure capace di far vibrare le stesse paure, identico nel presentarci il conto di una libertà che spesso somiglia, più che alla leggerezza, a una vertigine di solitudine. Nella vita di ciascuno di noi arriva un momento in cui il prima, l’età spensierata in cui si agisce d’istinto, cullati dalla proiezione di un futuro che immaginiamo per ingenuità più facile di quanto non sarà, e il dopo, l’attimo in cui abbiamo accesso a una nuova coscienza. Soltanto adesso, varcato questo confine, Irene cede al richiamo di una diversa analisi su di sé e arriva a mettere in discussione il lavoro, l’amicizia con Adriana, su tutto forse il suo legame con Pietro. “Sai che ti dico? Che vorrei prendere la mia vita come un pacco, metterla nelle mani di qualcuno e dirgli: Pensaci tu”. Ma la vita ti piomba addosso ogni giorno, e se sei il tipo di donna che ha imparato a ragionare, ogni giorno non puoi esimerti dal farlo.

E infatti Irene ragiona, ripensa al passato, a quando si è messa in viaggio per raggiungere sua sorella Marta, un’infermiera, e l’ha aiutata a prendersi cura dei soldati. Aveva un ruolo chiaro, allora, e seppure la guerra non accennasse a finire, la limpidezza di quelle azioni tanto prive di ambiguità le appare come qualcosa di desiderabile. In fondo, Erminia è tornata a farsi maltrattare dalla vecchia padrona per una ragione non tanto diversa: riappropriarsi del posto che il mondo le ha assegnato fin dalla nascita, sentendosi di nuovo al sicuro. Lei serva, lei schiava, lei una semplice contadina che fa la cresta sulla spesa perché la signora merita questo e altro. Irene, al contrario, così persa dietro a quel concetto di dignità. Anche con Pietro, che non le ha mai detto che è bella e che, pur desiderandola, non l’ha mai guardata con desiderio. Riappropriarsi degli istinti primari non coincide con una parabola d’involuzione, ma anzi. Irene torna a sentirsi libera, quando la sua storia d’amore giunge finalmente a una svolta, nel dopo di un prima che l’ha obbligata a osservarsi con uno sguardo vergine, sull’asse del rapporto con una donna tanto distante eppure simile per bisogni e paure.