Quando parliamo di transizione energetica il pensiero corre immediatamente alle fonti rinnovabili, all’elettrificazione e alla digitalizzazione delle reti. Ma c’è un elemento – fondativo – che pur essendo meno visibile rende possibile ogni passo in avanti: ed è proprio la chimica.
Erroneamente e da sempre infatti, releghiamo questo tema al dibattito alto dell’accademia, o a un’idea di industria marginale, quasi elitaria, quando in realtà rappresenta la vera infrastruttura intellettuale, solida e materiale, della transizione energetica. Senza chimica infatti non esisterebbero le batterie, le celle solari, l’idrogeno verde, né potremmo sviluppare biocarburanti o catalizzatori sostenibili, solo per citare alcuni esempi.

Così ogni centimetro conquistato sulla strada della decarbonizzazione è prima di tutto un viaggio profondo nella ricerca chimica. Uno dei contributi più evidenti allora sta proprio nella progettazione di nuovi materiali. Pensiamo ad esempio al fotovoltaico, a quanto ha fatto in questi anni la ricerca sui semiconduttori, per lo sviluppo di celle sempre più efficienti. Alle batterie, che sono cruciali per l’accumulo di energie rinnovabili, e ci aiutano a renderle disponibili in modo flessibile quando ne abbiamo bisogno. Anche queste dipendono da una raffinata ingegneria chimica, che spazia dalla scelta dei materiali alla composizione degli elettroliti, passando per la stabilità delle reazioni alla sostituibilità di materiali critici (dai quali potrebbero derivare nuove dipendenze energetiche). Tutto ciò contribuisce al miglioramento della performance energetica, della sicurezza e della sostenibilità di queste tecnologie, rispondendo ai principi del trilemma energetico del World Energy Council. Questi elementi infatti sono essenziali per le tecnologie pulite, ma la loro disponibilità è limitata e soprattutto la loro estrazione/lavorazione comporta costi ambientali e – come noto – geopolitici.

Grazie però a specifici processi chimici, è oggi possibile recuperare queste sostanze da fonti secondarie, dai rifiuti, dalle batterie, o da risorse poco concentrate, tramite il riciclo. La raffinazione sostenibile e l’innovazione nel campo della separazione selettiva diventano allora strategie fondamentali per ridurre la dipendenza da fornitori esteri, in particolare dalla Cina, e rafforzare la sovranità energetica dell’Italia e dell’Europa. La chimica però non è soltanto nei materiali, perché è anche nei processi. La grande industria chimica, hard to abate, è oggi una delle maggiori responsabili di emissioni di CO2 a livello globale. Tuttavia, sta diventando anche una delle aree di maggiore sperimentazione.
Si sta innovando su nuovi metodi che riducono di gran lunga il fabbisogno energetico, grazie alla cosiddetta “chimica verde”, che propone un approccio sistemico – olistico- alla progettazione di tutti i processi. Questo consente di ridurre o eliminare l’uso di sostanze pericolose, minimizzare gli scarti e sviluppare molecole che si degradino più facilmente in natura.

Infine, l’impiego crescente della chimica nella transizione energetica solleva – come per tutto – nuove sfide normative. Occorre allora definire standard di sicurezza e sostenibilità per i nuovi materiali, regolamentare i processi industriali emergenti e aggiornare la tassonomia verde europea, in modo da favorire le innovazioni davvero trasformative. Servono politiche industriali coerenti, che incentivino la ricerca chimica, promuovano il trasferimento tecnologico e formino nuove competenze, capaci di coniugare conoscenze scientifiche, ingegneristiche ed economiche.

In conclusione quindi, la transizione energetica non può essere compresa né realizzata appieno senza riconoscere il ruolo centrale della chimica. È attraverso questa scienza che l’energia si incarna nei materiali, si trasforma in tecnologie e si adatta agli usi umani. Investire di più nella chimica significa infatti dare sostanza alla transizione: renderla più efficiente, più sicura, più equa. Perché come sempre non è soltanto una questione di molecole: è una questione di futuro.