Scrive su Twitter Simone Lenzi, ex assessore dem a Livorno: «Onestà intellettuale: a parte che la Von der Leyen l’hanno votata loro, è difficile immaginare che chi non è stato capace di negoziare con Volturara Appula avrebbe avuto più successo con gli Stati Uniti». Pone un problema serio: il Pd e i riformisti che spiegano come avrebbero saputo tenere a bada Donald Trump sono gli stessi che, negoziando con Giuseppe Conte, ne abbuonano la tracotanza, accettando di buon grado imposizioni sulle candidature e diktat sulla linea?

Proprio quello della Toscana, dove si voterà in autunno, è un caso di scuola. Dopo aver tenuto a bagnomaria la ricandidatura di Eugenio Giani, imponendo al Nazareno di tirare il freno a mano sull’ufficialità della nomination, il partito di Conte adesso sta facendo melina. Impuntandosi, o forse solo fingendo di impuntarsi, qua e là, magari con lo scopo non troppo velato di rialzare la posta in gioco e imporre a Giani un vicepresidente contiano, in una regione dove il Movimento prende poco e niente. Accade così che alcuni gruppi territoriali del M5S abbiano iniziato a frenare l’ipotesi di alleanza col Pd in Toscana.

Il ‘netto no’ formalizzato ieri con una nota pubblica non scompone però il presidente della Regione, Eugenio Giani. Interpellato sul punto, durante una conferenza stampa, il governatore esprime in effetti «una valutazione positiva del dibattito che nel Movimento si sta tenendo». Ad avviso di Giani, «è la dimostrazione di un dibattito franco, sereno. Anzi lo interpreto così: se ci sono nuclei che a livello locale sentono il bisogno, cosa che non avevano avvertito finora, di uscire in modo fragoroso, significa che avvertono che nella maggioranza del M5S c’è una seria discussione sull’adesione alla coalizione progressista, di centrosinistra del cosiddetto campo largo». Quindi, aggiunge il presidente della Regione, «rispetto questo dibattito in ciascuna delle posizioni che all’interno del Movimento possano essere espresse, e mi auguro che prevalga quella che, di fronte alle nostre grandi aperture», veda l’alleanza di campo largo come protagonista anche delle elezioni toscane. A chi tuttavia gli chiede se questo significa che valuta come minoritarie le voci interne ai 5 Stelle contrarie all’alleanza, Giani osserva: «Chi è contrario sente il bisogno di uscire all’esterno. E se si sente questo bisogno, significa che questo dibattito c’è ed è forte la componente che porta a vedere con favore un’alleanza».

Mentre il Movimento tratta con il Pd con l’ormai consolidato metodo trumpiano (minaccia + concessione = accordo), un protagonista, suo malgrado, dell’ondata populista e giustizialista che ha colpito anche la Toscana arriva nelle librerie di tutta Italia con un saggio destinato a far discutere. L’autore è noto alla politica della regione: Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale toscano. Protagonista e vittima di una vicenda giudiziaria annosa – legata a L’Unità – iniziata nel 2012 e conclusasi pochi mesi fa, con una assoluzione piena. Il volume, Sotto gli occhi di Clelia. Dalla Toscana un’idea di futuro per l’Italia (Giunti editore), è quasi un manifesto politico, tanto che la prefazione è di Stefano Bonaccini. «Ho potuto constatare sulla mia pelle come indagini e processi possano trasformarsi in strumenti di delegittimazione. Ma non è solo una vicenda personale: è la storia di tante donne e uomini che, con competenza e spirito di servizio, hanno accettato incarichi pubblici o manageriali e si sono ritrovati travolti da sospetti, procedimenti, clamori mediatici. In Italia, troppo spesso, basta un avviso di garanzia per interrompere un percorso umano e professionale», ci dice.

«È così che un’azione giudiziaria legittima finisce per diventare un’arma politica e mediatica. Si confondono responsabilità politiche con responsabilità penali. Si costruisce un colpevole prima ancora che ci siano delle prove». Uno stigma, mette nero su bianco Mazzeo, che «non colpisce solo i singoli, ma mina la fiducia collettiva nelle istituzioni e nel diritto stesso. Occorre dirlo con chiarezza: il “populismo penale” sta trasformando la giustizia in una macchina simbolica, punitiva, utile solo a fare clamore. Per cinque anni ho portato un peso che non meritavo. Sono stato definito “impresentabile”. Ho sopportato una gogna mediatica violenta. Ma ho continuato a credere nella giustizia, quella vera. Perché credo nello Stato di diritto, non nello stato di sospetto». Conclude: «La mia esperienza oggi è un monito. La politica perde credibilità quando fa dell’accusa preventiva la propria arma. Quando rincorre l’onda del giudizio sommario invece di difendere la legalità e il garantismo».

Il tema è serio. E il caso Mazzeo è quello di centinaia di amministratori pubblici i quali, finiti sotto esame per un sospetto o una calunnia, hanno visto sfumare il loro consenso, le loro idee, i loro progetti insieme al diritto dei loro elettori a vederli rappresentati. E forse perfino realizzati. Nella richiesta che i riformisti dem fanno di nuovo garantismo c’è una delle linee di frattura con quel Movimento Cinque Stelle che ha invece celebrato i suoi successi danzando al suono delle manette. Due culture politiche, quella garantista e quella giustizialista, destinate a procedere su binari paralleli che solo un deragliamento potrebbe far incrociare. Forse per questo, nel campo largo, le occasioni di confronto politico sono centellinate.

Ieri doveva tenersi una riunione della direzione Pd. Forse Schlein non voleva farne l’arena per un confronto con i riformisti, sempre più sul piede di guerra. Il senatore Filippo Sensi ne parla in questi termini: «Non faccio parte della direzione del mio partito, leggo di un appuntamento online con un’agenda assai ristretta, e tuttavia credo che ogni occasione persa di confrontarsi e ragionare insieme su quello che siamo, quello che dovremmo e vogliamo essere sia una diminuzione. Peccato».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.