Oliviero Diliberto è Professore Ordinario di Diritto Romano presso l’Università La Sapienza di Roma, Preside della Zhongnan University of Economics and Law (Wuhan, China), componente di istituzioni accademiche in Francia. Oggi lo abbiamo invitato a questa conversazione non solo per il suo ruolo di studioso ma perché componente della Camera dei Deputati dal 1994 al 2008, dirigente di partiti politici della sinistra e perché è stato Ministro della Giustizia dal 21 ottobre 98 al 26 aprile 2000 in due Governi guidati dall’On. Massimo D’Alema. Dunque uno dei protagonisti del dibattito che ha portato all’approvazione del nuovo art. 111 della Costituzione, introdotto nella Carta con la Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2.

Proviamo a definire le condizioni pregresse. Dopo le sentenze gemelle del ’92 della Corte costituzionale che hanno duramente compromesso l’impianto del codice accusatorio in nome del principio della non dispersione della prova, novità servente rispetto alla asserita finalità del processo che risiederebbe nella ricerca della “Verità”, la stessa Corte costituzionale, con la pronuncia 361 del ’98, aveva travolto anche il nuovo art. 513 c.p.p., ribadendo l’orientamento finalizzato alla salvaguardia dell’attività investigativa del Pubblico Ministero. Dunque, uno scontro tra politica e Corte costituzionale?
«Può essere utile approfondire il contesto di allora anche sul versante culturale e politico. Certo, erano ben presenti i pronunciamenti della Corte costituzionale che non agevolavano il radicarsi dell’idea del contraddittorio come unica modalità di costruzione della prova nel processo, ma apparteneva, in quel periodo storico, a una larga parte della sinistra l’urgenza e la necessità di affermare i princìpi del giusto processo, non in modo astratto, ma nella chiara definizione di presidi di garanzia per superare definitivamente l’impostazione inquisitoria; la circostanza che Presidente del Consiglio fosse appunto Massimo D’Alema ed io il Guardasigilli, ha certamente favorito la possibilità di un punto d’incontro anche con le opposizioni. Alle spalle vi era il fallimento dei lavori della Commissione bicamerale, e quel progetto si era arenato proprio sulla giustizia, sulle altre riforme istituzionali probabilmente un accordo sarebbe stato possibile, ma sulla giustizia saltò il tavolo. Né si deve dimenticare che proprio in quel periodo erano in corso a Palermo il processo Andreotti e a Milano il processo Previti, anche per questo era alta la fibrillazione nei rapporti politici».

Senza che necessariamente si intenda fare un parallelo con la riforma costituzionale di oggi, bisogna però dire che Senato e Camera procedettero spedite nella doppia lettura, senza modificazioni del testo proposto, nonostante la novità di una norma che contiene la codificazione di princìpi generali espressi in modo chiaro e preciso.
«La convergenza fu senza dubbio ampia e la soluzione fu agevolata dal riferimento alle codificazioni sovranazionali».

Una norma riferita in particolare alla Corte costituzionale?
«È la stessa struttura dell’art. 111 della Costituzione che ci dice che la norma è riferita in primo luogo al Legislatore. È la legge che è chiamata ad assicurare le garanzie difensive, dalla struttura dell’informazione dei motivi dell’accusa al diritto di interrogare o far interrogare la persona che ti accusa, dal diritto di difendersi provando alle garanzie per l’alloglotta e così via. E ancora, è la legge che assicura la ragionevole durata del processo. È poi chiarito che il processo è quello caratterizzato dal contraddittorio davanti al Giudice terzo e imparziale. Si dimentica spesso che questo insieme di princìpi codificati riguarda tutti i processi, non solo il processo penale, poniamo mente ad esempio alle conseguenze nel rapporto Stato-cittadino che hanno avuto tali garanzie nel processo tributario o nel giudizio dinanzi alla Corte dei Conti».

Allora a chi parla primariamente la norma?
«La norma costituzionale parla prima di tutto al Legislatore, è orientata al futuro per dire allo Stato che la giurisdizione dovrà comunque essere caratterizzata dal contraddittorio sulla prova dinanzi al Giudice terzo e imparziale».

Considerazioni importanti, anche per comprendere il dibattito dell’oggi su indipendenza e terzietà del Giudice.
«Intendo tenermi lontano dai temi referendari, pure di grande rilevanza sul piano sistematico, ma ahimè il dibattito oramai è tra tifoserie e mi pare non vi sia lo spazio per discussioni ragionevoli sui princìpi».

Possiamo però convenire che il 111 della Costituzione ha inciso sulla definizione dei princìpi a cui si era prima ispirata la Corte costituzionale?
«Vero, la norma proprio per la sua collocazione e per la parte prescrittiva si è rivolta anche al Giudice delle leggi stabilendo che tra i princìpi fondanti del sistema vi era, come vi è, il contraddittorio, e rispetto ad esso non vi possono essere, o meglio non vi dovrebbero essere, né deroghe né limitazioni. I princìpi racchiusi nell’art. 111 della Costituzione sono da allora destinati ad essere parametro dei giudizi di legittimità costituzionale. In quel momento storico la norma parlava anche al singolo Giudice, chiarendo che quei princìpi non avrebbero sopportato prassi applicative difformi dal modello costituzionale. Fu assolutamente vivace il dibattito sul diritto intertemporale e la soluzione di compromesso che il Parlamento raggiunse fu sì una mediazione, ma alta e non di messa in discussione dei princìpi».

Una parte dell’Accademia, ma in particolare l’Associazione Nazionale Magistrati, che non aveva amato il nuovo codice accusatorio e che si era resa protagonista, ispirandole, delle tantissime ordinanze di remissione alla Corte costituzionale, sosteneva che non sarebbe stato necessario un intervento nella Carta, che la Costituzione già prevedeva i princìpi generali, anche in ragione del richiamo alle fonti internazionali e in particolare all’art. 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e all’art. 14 del Patto internazionale.
«È senz’altro vero che alcune garanzie descritte nell’art. 111 della Cost. sono già codificate nelle norme sovranazionali da te richiamate, ma aggiungo che il legislatore costituzionale ritenne giustamente di procedere con una norma prescrittiva che radicasse nell’ordinamento il processo accusatorio, avendo anche a mente le previsioni della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea ed anche la Costituzione degli Stati Uniti d’America, che contiene indicazioni pregnanti per la definizione dell’accusatorietà. Quanto alla Magistratura italiana, nella mia funzione, ho avuto un rapporto di disponibilità al dialogo, in particolare con gli apicali delle più grandi Procure; all’epoca, a dieci anni dal codice Vassalli, ho avuto la sensazione che non fossero loro i nostalgici del ritorno all’inquisitorio».

Protagonista del percorso dell’articolo 111 della Costituzione è stato l’Avvocato Professor Giuseppe Frigo.
«Ho apprezzato molto in quegli anni l’opera e l’impegno di Giuseppe Frigo che allora era alla testa degli Avvocati delle Camere Penali. Ricordo il rigore scientifico, ma anche la sua empatia, la sua fermezza e la sua capacità di dialogo. Accanto a lui vi era il giovane segretario delle Camere penali, l’Avvocato Niccolò Ghedini, con il quale ho mantenuto sempre un rapporto di stima e di confronto, nonostante le nostre distanze culturali, fino alla sua drammatica prematura scomparsa».

In conclusione, vogliamo dire che l’insieme delle regole dell’articolo 111 sono state un modo per rendere ancora più democratica la nostra Costituzione?
«Vorrei dire che si è trattato di una riforma garantista, io mi ritengo tale e mi fa piacere quando la mia azione politica viene associata a un pensiero garantista, ma sia chiaro che l’essenza delle garanzie ha significato solo se esse sono per tutti, non solo per il politico o per l’industriale, ma anche per chi risiede nei campi Rom o versa nella drammatica condizione dei migranti, diversamente quelle prerogative perdono il loro significato di diritti e si trasformano in odiosi privilegi».

Eriberto Rosso

Autore

Avvocato Penalista