Ed eccoci a un nuovo sciopero della CGIL, definito “generale”, ma privo dell’adesione di CISL e UIL, le altre due grandi confederazioni storiche del lavoro italiano. A fianco di Landini si schierano invece i sindacatini dell’antagonismo, quelli che da sempre considerano i contratti collettivi un compromesso inutile. In fondo, l’attuale segretario della CGIL non è mai stato lontano da questa visione: è spesso l’ultimo a convincersi di un accordo, e quando lo fa è più per necessità che per convinzione.

Eppure, il sindacalismo autentico, in Italia come in ogni paese libero nel mondo, si fonda proprio sul compromesso: la contrattazione tra lavoratori e imprese, tra interessi particolari e interessi generali quando si contratta con i governi. Un contratto collettivo non è una resa, ma l’esercizio maturo della rappresentanza. Negarlo significa smarrire la funzione stessa del sindacato. Così, per la prima volta nella storia repubblicana, si consuma una frattura profonda tra CGIL, CISL e UIL. Al posto dell’unità sindacale, ecco una saldatura inedita tra la CGIL e le sigle antagoniste, in nome di una protesta permanente. È un salto nel buio che mette a rischio la credibilità e la solidità delle associazioni dei lavoratori, già logorate dall’onda lunga del populismo e dalla disaffezione verso le mediazioni. Senza una bussola comune, il movimento sindacale rischia di trasformarsi in una tribuna di scontenti, incapace di produrre risultati e destinata a inseguire l’emotività del momento più che il progresso reale delle condizioni di vita.

In questo contesto, lo sciopero si innesta su una legge di bilancio costruita sotto il vincolo europeo del non indebitamento, anzi con l’obiettivo di iniziare a ridurre il debito. È una manovra certo modesta sul fronte dello sviluppo, povera di investimenti, ma non priva di segnali positivi: il taglio delle aliquote sul lavoro dipendente, la detassazione degli aumenti contrattuali – una scelta inedita – e l’ampliamento del salario di produttività. Tutto finanziato attingendo agli extra-profitti delle banche, che in un paese normale dovrebbero restituire ai risparmiatori parte dei margini ottenuti dai loro depositi. Questa verità, dovrebbe mettere in luce l’attenzione avuta sui salari e sulla prospettiva ulteriore di svilupparli attraverso la valorizzazione della produttività.

E allora perché tanta ostilità? Si può e si deve discutere di più e meglio, certo. Ma il dissenso responsabile non si esprime con slogan vuoti come la patrimoniale o il salario minimo, agitati come bandiere di una sinistra senza progetto. Servirebbe invece un vero patto sociale sulla produttività e sulla crescita, un terreno di confronto serio e riformatore. Scioperare contro tutto e tutti, oggi, non è lotta: è testimonianza sterile, e pericolosa. Il rischio è che, nell’illusione di difendere i lavoratori, si finisca per indebolirli ulteriormente: un sindacato isolato dal resto della rappresentanza sociale diventa un megafono di protesta, non uno strumento di cambiamento.