Non c’è governo degli ultimi trent’anni che abbia messo le mani sulla scuola. E siccome di governi ne abbiamo avuto tanti e diversi, nostro malgrado, le riforme sono tante e diverse. Anche qua, nostro malgrado. Ogni riforma è sempre stata presentata come quella definitiva e necessaria per rendere il sistema scolastico ed educativo italiano al passo coi tempi: per renderlo efficiente, efficace e utile a gettare basi concrete per lo sbocco lavorativo dei nostri ragazzi. Una delle prime grandi rivoluzioni è stata la cosiddetta Riforma Bassanini del 1997. Con questa legge è stato introdotto il concetto di autonomia scolastica: si proponeva, infatti, di riconoscere alle scuole piena autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e di sviluppo. È arrivata poi l’epoca delle tre “I”: inglese, impresa, informatica. Erano i capisaldi dei cambiamenti voluti da Letizia Moratti, ministro dell’istruzione nei primi anni 2000, volti ad abolire la precedente riforma voluta da Berlinguer. Tra le maggiori novità di questa riforma si ricorda l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, argomento ancora oggi tra i più discussi tra ragazzi, genitori e istituzioni. Ma d’altronde sono passati solo poco più di vent’anni. C’è stato il turno di Fioroni, ministro tra il 2006 e il 2008, che in tempi e modi diversi ha cercato, sostanzialmente, di riportare in vigore la riforma voluta da Berlinguer. Si sono succedute poi la riforma Gelmini, che a sua volta annullava alcuni provvedimenti riportati in vigore e che verrà ricordata soprattutto per alcuni tagli al bilancio, oggetto di scioperi e critiche. La Buona Scuola, provvedimento presentato da Renzi, puntava ad accrescere l’autonomia scolastica e ad assumere insegnanti, all’epoca come oggi carenti, introducendo però anche un sistema di valutazione delle loro performance accolto dai sindacati come Geolier sul palco di Sanremo nella serata dei duetti.

Qualche provvedimento rimane ancora in vigore: l’introduzione delle prove Invalsi al posto degli esami di quinta elementare, l’abolizione dei programmi scolastici (esatto, non esistono più argomenti imposti, ma delle Indicazioni Nazionali che lasciano ampia autonomia al docente, che si deve preoccupare dell’apprendimento dello studente e non del programma ministeriale), cambi di nome importanti (addio scuole elementari e medie, benvenuta scuola primaria), i PCTO, ovvero i “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, indirizzi sperimentali utili e altri interventi.

Ma c’è una cosa che tutti hanno toccato, un tema che appassiona giornali, psicologi, pediatri, insegnanti, sindacati, associazioni di genitori, tutti (salvo gli studenti, sarà un caso?): il sistema di valutazione. Riportava il Sole24Ore nei giorni scorsi che per la decima volta negli ultimi 40 anni il sistema di valutazione degli studenti è destinato a cambiare. Non voglio assolutamente asserire che il sistema con cui uno studente viene valutato sia poco importante. Sono ben conscio che prendere un 2 o un 9, un giudizio sintetico o un distinto, un voto in centesimi o in decimi, in lettere o in altre forme, abbia un impatto sui ragazzi. E sono altrettanto conscio del dibattito in essere tra chi sostiene la necessità o l’impatto delle scuole senza voti e tra chi invece difende il valore educativo e formativo dei giudizi, di qualunque forma essi siano. Anche la Riforma Valditara, in discussione alla Commissione Istruzione del Senato, che pure ha alcuni elementi di grande rottura rispetto al passato, parte dai voti. Grande attenzione alla condotta, con la valutazione che torna a far media anche dalle scuole medie e che può determinare la bocciatura. Vengono inoltre eliminati i giudizi descrittivi tornando, forse cioè salvo emendamenti, alla valutazione introdotta da Berlinguer negli anni Novanta, mentre alle superiori torna d’obbligo la valutazione di metà anno con la relativa pagella.

È davvero questa una priorità nell’agenda del nostro Paese per riformare la scuola? Siamo in un periodo storico in cui l’abbandono scolastico ha raggiunto livelli mai toccati prima, con ovvi e gravi impatti sull’ingresso nel mondo del lavoro – o della delinquenza, per molti giovani. Siamo fanalino di coda europeo nella percentuale di Neet, ragazzi che non studiano o non lavorano. Abbiamo scuole che cadono a pezzi, letteralmente, e molti cantieri previsti grazie ai fondi del PNRR non sono ancora partiti. Le Indicazioni Nazionali che hanno sostituito i programmi sono spesso rimaste mere indicazioni e manca un’attuazione comune, con diversi istituti che non hanno innovato nulla in tal senso. Ci sono ancora le famose classi pollaio e classi dove il docente arriva ad anno scolastico ormai iniziato da tempo. Abbiamo studenti con disabilità senza sostegni o dentro scuole con barriere architettoniche. La tecnologia di molti istituti è ferma agli anni ‘90. Manca un focus chiaro e deciso sulle discipline che oggi sono decisive per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro o il passaggio nell’istruzione universitaria. L’orientamento post-scolastico oggi è disciplinato dai docenti Tutor. Gli orari e il calendario scolastico sono gli stessi da anni, quando il mondo nel frattempo è cambiato e gran parte delle famiglie richiede una rimodulazione sulla falsariga di altri Stati europei. Il metodo di insegnamento e, di riflesso, di apprendimento è rimasto nella maggioranza dei casi lo stesso di cinquant’anni fa, con adolescenti che passano anche sei o sette ore seduti ad ascoltare nozioni attraverso lezioni frontali. Manca una programmazione sistemica delle attività extra curriculari. Le note alternanze sono spesso fucina di stagisti-fotocopiatori. L’ambiente scolastico è epicentro di molti episodi di bullismo. Manca un reale supporto psicologico a studenti e, perché no, professori. La formazione dei docenti è spesso lasciata alla loro volontà, mentre mancano fondi e programmi specifici e differenziati per ruolo e istituto. Pochi passi avanti sono stati fatti nella loro valutazione.

Le riforme degli ultimi trent’anni hanno spesso lasciato inalterata la sostanza della vita quotidiana nelle scuole. Concentrarsi sulle pagelle, il voto in scala decimale o in altre forme e sulla necessità o meno dei giudizi sintetici significa non riconoscere che la scuola dovrebbe essere un luogo di crescita, scoperta e preparazione alla vita, non solo un’arena per l’assegnazione di voti. Se desideriamo un sistema educativo che formi cittadini informati, critici e pronti a contribuire attivamente alla società, se vogliamo che la scuola, tutta, torni ad essere il luogo della formazione e il primo passo per diventare adulti dei nostri ragazzi, allora, forse, dovremmo investire in altre riforme.