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Sentenza Tribunale di Torino per maltrattamenti: il linguaggio della giurisdizione non può travestirsi da sermone
Come insegnano Perelman e Olbrechts-Tyteca, il lessico morale è “impermeabile”: sottrae l’argomento al confronto e rende opaca la discussione
La recente sentenza del Tribunale di Torino, che assolve dall’ipotesi di maltrattamenti e condanna per lesioni, qui interessa non per l’esito ma per il suo lessico. Il punto, prima ancora del diritto vivente, è la lingua in cui il diritto si manifesta: quando il registro tecnico scivola in quello morale, la motivazione cessa di essere una lastra trasparente e diventa specchio deformante, capace di polarizzare l’opinione pubblica e di logorare la fiducia nella giurisdizione. Partiamo dall’ovvio che, in quanto tale, merita d’esser ripetuto: in un ordinamento fondato sulla separazione dei poteri, non c’è spazio per l’onda d’urto dell’indignazione mediatica che pretende di convocare il singolo magistrato al banco degli imputati dell’opinione pubblica, né per pressioni parlamentari indirizzate alla persona del giudice estensore. Simili pratiche, più che critica, somigliano a un’intimidazione simbolica che insidia l’autonomia della giurisdizione. E tuttavia la radice della polarizzazione non nasce dal nulla: quando la motivazione abbandona l’analisi giuridica e imbocca la via del giudizio morale, introduce una torsione che funge da innesco. Il lessico etico, insinuandosi nella trama argomentativa, diventa miccia: scalda gli animi, offre ai titoli e ai social un perfetto detonatore emotivo e sposta il baricentro dall’accertamento probatorio al pregiudizio.
La fondatezza della decisione, com’è fisiologico, sarà verificata nei gradi successivi. Saranno le parti a contrapporsi, i giudici superiori a verificare la tenuta argomentativa rispetto alle prove. Qui però interessa la qualità del linguaggio, che dovrebbe restare logico, sobrio, verificabile. Quando si colora di giudizi di valore, si producono due effetti nocivi: alterare la percezione dei fatti e sottrarre le premesse alla confutazione razionale. Un dato, fra i molti possibili forniti dal lessico della sentenza, illumina la questione: l’aggettivo “brutale”, usato per qualificare il modo in cui la persona offesa ha comunicato la volontà di sciogliere il legame con un messaggio WhatsApp dopo quasi vent’anni di convivenza. “Brutale” non misura un illecito né un nesso probatorio; appartiene alla costellazione semantica del biasimo morale. Inietta nella motivazione un ammonimento paternalistico: non solo espone, ma suggerisce “il modo giusto” di stare al mondo, trasformando la sentenza in un sermone. Che la qualifica colpisca la persona offesa e non l’imputato non attenua il problema: in entrambi i casi si oltrepassa il confine del giuridico per entrare nel foro dell’etica.
Coerenza vuole che il metro sia unico: abbiamo già censurato etichette come “orda” o “branco” rivolte agli imputati e abbiamo criticato provvedimenti che descrivevano l’indagato come “avido” o “spregiudicato faccendiere” (come accaduto assai recentemente in occasione di una nota vicenda giudiziaria milanese): si tratta di marchi morali che mostrificano l’identità e rimpiazzano le categorie giuridiche. Con eguale nettezza occorre respingere oggi l’attribuzione di “brutale” alla persona offesa. Sullo sfondo campeggia un principio unico e indiviso: il linguaggio della giurisdizione non può travestirsi da sermone, né per stigmatizzare l’imputato né per biasimare la persona offesa. In entrambi i casi la magistratura abbandona il terreno del diritto, il giardino del giusto processo, per inoltrarsi nella boscaglia delle virtù e dei vizi. E non è il suo Foro.
Il tema è antico. Il modello processuale dell’Inquisizione medievale codificò un lessico deliberatamente demonizzante per rappresentare l’eretico come natura deviata: in quel periodo fu sperimentato per la prima volta il linguaggio per stigmatizzare, non per garantire. Quando quel vocabolario filtra ancora oggi nelle motivazioni, ne riaffiora la genealogia: la parola smette di essere bisturi analitico e diventa pastorale; e con il pastorale, lo sappiamo, non si incidono i fatti, si pascolano le coscienze. Da qui un punto teorico: il principio del giusto processo (art. 111 Cost.) è anche canone linguistico. Un processo è “giusto” quando è sorretto dalla sobrietà delle parole, da un lessico che resti strumento di garanzia e non esercizio del Foro “interiore”. Il linguaggio è parte dell’argomentazione: deve consentire falsificazione, controprova, confutazione nei gradi successivi. Come insegnano Perelman e Olbrechts-Tyteca, il lessico morale è “impermeabile”: sottrae l’argomento al confronto e rende opaca la discussione.
Ne deriva un doppio imperativo. Sul piano metodologico: restituire alla sentenza la sua funzione di garanzia linguistica, fatta di proposizioni controllabili, di lemmi che discriminano tra lecito e illecito, tra provato e non provato, evitando di valutare nobiltà dei sentimenti o eleganza dei comportamenti. Sul piano istituzionale: difendere il linguaggio tecnico significa difendere la giurisdizione. Un lessico asciutto e giuridicamente orientato è scudo contro le pressioni esterne e contro gli attacchi, improvvidi e pericolosi, che in queste ore provengono dalla politica e dall’opinione pubblica. La misura delle parole sottrae il giudice al tribunale dell’emotività, restituisce il processo al diritto e, in ultima analisi, custodisce la separazione dei poteri. Ecco perché non è questione di assoluzioni o condanne, materia del perimetro sacro dell’aula, delle parti e del giudice naturale, ma di metodo: usare un linguaggio che sia garanzia, impermeabile ai giudizi di valore morale e culturale. Solo così la sentenza potrà essere, davvero, espressione del giusto processo e non miccia della contesa sociale.
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