È trascorso un mese dalla firma dell’intesa tra il Ministero della Giustizia, il Comune di Napoli e l’Agenzia del Demanio, finalizzata a garantire nuovi spazi a supporto della giurisdizione più funzionali, sicuri e moderni. L’obiettivo è riqualificare quei locali dal punto di vista energetico, dei materiali e delle tecnologie utilizzate in modo tale da razionalizzare i consumi, con conseguenti risparmi di spesa, e favorire la transizione digitale e la sostenibilità economica, ambientale e sociale degli interventi. In particolare, l’intesa prevede una soluzione progettuale che doterà gli uffici giudiziari di sale di ascolto protette, postazioni dedicate ad avvocati e utenti, aree adeguate destinate all’accoglienza, parcheggi, servizi e percorsi pedonali, tra cui un collegamento sospeso tra gli uffici della Procura della Repubblica e quelli del Palazzo di Giustizia, per migliorarne la fruizione e l’accessibilità.

In attesa di vedere realizzato questo apprezzabile progetto e confidando in tempi non biblici, la giustizia a Napoli non si può regolarmente celebrare perché è ospitata da un edificio sviluppato in verticale che ha mostrato tutta la sua vulnerabilità durante l’emergenza scatenata dalla pandemia. La situazione più inaccettabile riguarda i procedimenti penali in Tribunale e quelli di fronte ai Giudici di Pace, sia civili che penali. Nel penale i canali telematici poco si adattano alla necessità di svolgere le attività di persona. E a Napoli le maggiori criticità riguardano i procedimenti di fronte al giudice monocratico, dove ci sono oltre 34mila pendenze. Drammatica, invece, la situazione dei Giudici di Pace dove la telematizzazione è una chimera e non è neanche partita, nonostante la grande mole di controversie di cui gli stessi si occupano.

E poi c’è un problema di informazione, atteso che il sito del Tribunale di Napoli non è sempre aggiornato. Tra l’altro, il sistema non sempre funziona, soprattutto in determinati orari di accesso massivo da parte di tutti gli avvocati. Senza dimenticare il gravissimo “black out” del processo civile telematico per l’interruzione dei servizi di inizio novembre, che ha portato poi a un peggioramento e a un vero e proprio caos: duplicazioni di depositi e rallentamenti nella ricezione della pec e rinvii delle udienze per mancanza di certezza dei depositi degli atti. Purtroppo le risposte che stanno arrivando per fronteggiare tutto ciò sono molto frammentate e non frutto di regole nazionali uniformi, perché dettate dai vari presidenti dei Tribunali e applicate diversamente dai singoli magistrati. Una situazione che preoccupa nuovamente gli avvocati che, a mezzo dell’Organismo congressuale forense, già la scorsa primavera avevano denunciato il caos provocato dagli innumerevoli protocolli che avevano regolato la ripresa dell’attività dopo la sospensione dei termini e delle udienze del primo lockdown. L’Organismo ha chiesto più volte di essere consultato e di non continuare a ripetere la ingiustificata condotta tenuta in ordine a tutte le più recenti misure di contenimento della pandemia in ambienti giudiziari, assunte senza l’ascolto dell’avvocatura italiana.

In definitiva, bisogna prendere atto che la giustizia purtroppo è stata finora la cenerentola dell’amministrazione pubblica, a discapito di tutti i soggetti che vi operano tra magistrati, personale di cancelleria e avvocati, che ha portato in alcuni casi a una vera e propria denegata giustizia per i cittadini. La manutenzione e la messa in sicurezza dell’esistente dovrebbe rappresentare la prima priorità nell’utilizzo del Recovery fund: perché non si vuole prendere atto di tutto ciò?