Addio alla partigiana
Storia di Lidia Menapace: partigiana, pacifista e femminista
Lidia era molto simpatica. A Milano viveva in una grande casa affacciata sulla Darsena, a due passi dalla prima sede del Manifesto, a Porta Ticinese. La Milano dei Navigli, dei vecchi trani dove nei primi anni sessanta si andava con le chitarre a cantare “Ma mi” e “La Rosetta” (che batteva alla colonnetta), e poi, proprio quando Lidia arrivò ed era ormai il sessantanove, e poi i primi settanta, si intonavano “Contessa” e “Dio è morto”.
La sua storia è venuta fuori a poco a poco, senza vanterie né prosopopea. Quella ufficiale, che stiamo leggendo anche in queste ore da quando lei non c’è più, e ci voleva proprio un virus maligno e spocchioso come il Covid-19 per abbattere una piccola roccia come lei. E quella personale, che noi ragazzi compagni ascoltavamo sentendola come nostra, perché lei era fatta così, era stata da subito una di noi. Era la storia di una giovanissima staffetta partigiana, la partigiana “Bruna”, insofferente della sua piccola prigione di donna cui Togliatti avrebbe voluto togliere il diritto di partecipare insieme agli uomini alla sfilata della liberazione a Milano.
Era una femminista che non aveva bisogno di definirsi tale, come mia madre che diceva alle figlie “non dovrete mai dipendere da un uomo”, come le tante donne della sua generazione, le prime ad avere avuto il diritto di voto in Italia. Non ha mai avuto comunque il timore di apparire subalterna per il solo fatto di aver sempre portato, lei che era nata Brisca, il cognome Menapace che era quello di suo marito, “il Nene”, un medico con il fisico di un grande orso bruno, da cui lei si è sempre sentita protetta pur mantenendone totale autonomia. Una vita insieme, fino a che lui c’è stato. Cattolica, e anche democristiana, fino a un certo punto. Non ha avuto bisogno di cesure violente o di acrobatici salti di qualità per diventare quella che poi è stata.
È stato il suo incontro con Rossana, l’altra eretica di altra storia, di altra bandiera. Lidia ce lo raccontava così. Andavo a convegni, incontri culturali e anche politici. Io ero una dirigente democristiana, lei comunista. Non c’era un particolare rapporto personale, tra noi, forse non ci eravamo neanche troppo simpatiche. I due mondi erano separati, allora. Ma capitava che tutte e due buttassimo lì una parola, che era simile a quella dell’altra, e poi una frase e poi un pensiero. E poi ci rendemmo conto che eravamo una piccola grande comunità, noi due insieme, che un filo comune di pensiero ci portava alla stessa conclusione. Stessa sorte, in un certo senso. Lidia che manda una lettera al suo partito e chiude una porta. Per sempre. Rossana radiata dal Pci dopo l’articolo “Praga è sola” sulla rivista del Manifesto e le intuizioni sul movimento degli studenti nel sessantotto.
Proprio come Lidia, che era stata docente all’Università Cattolica di Milano, quella da dove partì il movimento e dove lei non poté più tornare per motivi politici. Una grande attenzione al mondo della scuola, della formazione, dello studio e della cultura. Lidia aveva una visione del futuro, e sapeva che il futuro partiva da lì. La scuola è un corpo separato, fu uno slogan del Manifesto. E da lì l’intuizione, cui i partiti arriveranno qualche decennio dopo, che lo studio e la formazione culturale dei giovani dovessero essere più vicini al mondo del lavoro e dell’impresa. Quattro ore di studio e quattro di lavoro era una proposta maoista, e il Manifesto se ne era un po’ innamorato. Ma Lidia pensava soprattutto alle ragazze, che erano le più studiose ma poi finivano per impantanarsi nel matrimonio con una bella laurea in lettere nel cassetto.
Dai fiori di pesco ai fiori del fango. Nelle biografie ufficiali – quelle che raccontano di Lidia che fu la prima consigliera provinciale donna di Bolzano e che fu anche molto tempo dopo senatrice di Rifondazione – rimane un po’ in chiaroscuro quella che fu invece una grande lotta della sua vita. Diciamo lotta invece che battaglia o guerra, perché lei, che è stata sempre donna di pace, più che pacifista, avrebbe gradito così. Lei che non fu mai guerrafondaia, neanche nei rapporti personali, quelli in cui a volte cadono le donne. Mi piace molto poter raccontare la sua adesione incondizionata a un movimento degli anni settanta di cui ormai c’è poca memoria, quella del Movimento civile delle prostitute. C’erano due ragazze molto in gamba di Pordenone, Carla Corso e Pia Covre, di professione prostitute.
Erano così in gamba da aver capito che molte loro colleghe, soprattutto le tossicodipendenti, facevano una brutta fine per aver accettato, cosa a quanto pare molto richiesta da uomini irresponsabili, rapporti non protetti. Il movimento nacque a Pordenone perché lì c’erano loro due. E dilagò. Loro due cominciarono con un volantino in cui spiegavano in modo semplice i rischi che ogni prostituta correva qualora non avesse imposto al cliente l’uso del profilattico. E in tante, sempre di più, lo imposero. Erano gli anni in cui si moriva per il contagio da Aids. Veicoli di trasmissione, come ormai sappiamo tutti, sono soprattutto il sangue e il liquido spermatico. Le prostitute, in quei giorni, divennero un vero soggetto politico. E fecero incazzare parecchi uomini.
La campagna per rapporti sessuali protetti era molto difficile per l’opposizione del mondo cattolico al profilattico. Anche quella volta Lidia fu donna unica, eccezionale, fu visionaria e determinata. Si buttò in mezzo alle prostitute e partecipò con loro a un’affollatissima assemblea a Pordenone, in mezzo agli sberleffi di qualche giornalista cretino che, non conoscendola, si dava di gomito definendola una “vecchia puttanona”. Varda varda, dicevano in dialetto veneto, varda quella lì! E giù sghignazzi.
Lei tirava diritto, anche quella era una lotta con e per le donne, soprattutto “con”. Intuiva che anche un fardello come quello di porre un freno a un così grave rischio di contagio (nei paesi africani erano i preti di frontiera a distribuire preservativi clandestinamente), soprattutto nella popolazione più giovane, spettasse alle donne. Anche questo era il suo essere partigiana. Per me è stata tutto questo, la staffetta “Bruna”. E conservo ancora la cassapanca che mi ha donato quando ha lasciato Milano e la grande casa affacciata sulla Darsena.
© Riproduzione riservata





