Il 19 ottobre 2016, a seguito dello stupro e del femminicidio della giovane Lucìa Pérez, le donne argentine proclamano uno sciopero che diventa immediatamente politico e dà il via, a livello internazionale, alla rete Non Una Di Meno. Già prima di loro, il 3 ottobre dello stesso anno, erano state le attiviste polacche a rispondere con un mezzo fino allora riservato alle vertenze sindacali alla decisione del governo di criminalizzare l’aborto. Con questo accostamento insolito tra la violenza sulle donne e lo sciopero, finiscono per incontrarsi e confondersi due ricorrenze importanti per il femminismo: il 25 novembre e l’8 marzo. Non la conta delle vittime, dunque, o la commemorazione di una strage, ma la comparsa sulle piazze di un movimento che grida il suo “ultimatum”, “Ni Una Menos”, e la sua sfida al mondo: se davvero la nostra vita non vale, provate a produrre senza di noi. È uscito in questi giorni, con AgenziaX di Milano, la traduzione di Constelaciòn feminista, La luna che muove le maree, un libro che nella Prefazione Milin Bonomi definisce «la cronaca dell’assalto sferrato dai recenti movimenti femministi latinoamericani contro il patriarcato e tutti i suoi alter ego (razzismo, colonialismo e capitalismo)». Con la riappropriazione di uno strumento legato fino ad allora alle lotte operaie, a saltare è la divisione tra lavoro e non lavoro, tra ciò che è stato considerato produttivo e tutte quelle attività, rimaste per secoli invisibili, non retribuite, che hanno permesso la conservazione della vita, considerate compito “naturale” del sesso femminile.

Se in tempo di pandemia manifestare nelle piazze è impossibile e tanto meno abbandonare, anche solo per un giorno il lavoro di cura, diventato indispensabile dentro e fuori dalla famiglia, niente vieta di trasformare il 25 novembre in una giornata di riflessione sui cambiamenti che stanno avvenendo nel rapporto tra privato e pubblico, tra ruoli, gerarchie, di genere, tra sessualità e politica, vita intima e lavoro, tra violenza machista e razzista, istituzionale, economica e ambientale.

«Dall’America Latina partiamo e in America Latina ritorniamo – si legge nella Prefazione – a chiusura di questo 2020. Proprio lì, come altrove, la pandemia ha messo in luce tutti i lati oscuri del sistema neoliberale (…) L’ipersfruttamento del lavoro di cura, e in generale del lavoro precario, l’annullamento delle distanze tra il luogo di lavoro e quello dell’intimità, tra il tempo per la produzione e quello per la riproduzione sociale (la casa-fabbrica) hanno fatto emergere i limiti di un sistema che non ha retto e che per molti versi è stato sostituito da esperienze di mutualismo dal basso». È sicuramente un merito del femminismo aver portato nel cuore della politica la cura e la conservazione della vita nella sua totalità, aver aperto le porte di casa per scoprire che la famiglia non è il rifugio ideale che si è sempre detto, ma luogo dove perversamente l’amore si confonde con la violenza. Se non fosse bastato quello che già sapevamo sulla presenza delle donne nei servizi alla persona, nelle scuole, negli ospedali, nei lavori di pulizia, la quarantena, si fa notare nel libro, ha «amplificato la scena della riproduzione sociale, mettendo in evidenza su quali e quanti lavori “femminilizzati” – intermittenza, piena disponibilità del tempo, messa a valore delle capacità relazionali e di cura – si sostiene oggi la vita collettiva. Il lavoro a distanza, a cui si è costretti in tempo di pandemia, sembra aver portato allo scoperto quello che è sempre stata la casa, una “casa fabbrica”, e il lavoro domestico «un aggregato della grande economia» (Antonella Picchio).

La pandemia, si legge nello scritto Crack Up!, firmato da Luci Cavallero e Verònica Zago, «può anche essere una prova generale di diversa organizzazione del lavoro» per il tempo che verrà.
Non c’è dubbio che dall’America latina, con lo sciopero delle donne, è arrivato a noi un femminismo “imprevisto” in quanto radicalità di attacco al patriarcato in tutte le sue manifestazioni – sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, devastazione ambientale, omolesbotranfobia -, ma l’accorpamento delle lotte rischia di non tenere nel dovuto conto quanto il primo termine, il rapporto tra i generi, stretto tra logiche di potere e di amore, dominio e vita intima, consapevolezze nuove e radicamento inconscio, finisca, nel momento stesso in cui si cercano nessi, intersezioni, per scomparire. Il termine stesso “riproduzione sociale”, che ricorre nei testi delle femministe più vicine al marxismo, finisce per riportare dentro categorie dell’economico quella che è stato lo “scarto irriducibile” della rivoluzione femminista degli anni Settanta: la scoperta di una materialità dell’oppressione e dello sfruttamento femminile che passa attraverso la sessualità e la maternità, la cancellazione della donna come persona, singolarità incarnata. Che “amore” rimanga tuttora per il femminismo in tutte le sue diversità una parola impronunciabile, e che nel libro il cambiamento portato dal ‘68 venga definito come «forme di insurrezione micropolitiche», «saperi del corpo», creazioni di stili di vita alternativi a quelli dominanti (Suely Rolnik), fa capire quanto esile, perché recente e poco conosciuto, sia il portato del movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta, una cultura che Rossana Rossanda riconobbe come «unilaterale e antagonista» anche rispetto all’ideologia di classe. Se è ancora così difficile per le donne sottrarsi a relazioni intime violente, riconoscere come lavoro la cura che hanno per un figlio, un anziano, un malato, ma anche un uomo, marito, padre, fratello, in perfetta salute, non dovremmo continuare a interrogarci sull’ambiguità delle figure di genere, sul fatto che nella loro complementarità strutturano rapporti e gerarchie di potere, ma anche d’amore, quel sogno fusionale di ricomposizione armoniosa del femminile e del maschile che ancora regala tanto credito alla misoginia di romantici come Michelet e Mantegazza?