Verso il referendum
Taglio dei parlamentari, un favore alle lobby che faranno pressioni su una ristretta oligarchia
La riduzione dei parlamentari, salvo improbabili ribaltamenti della pubblica opinione, è cosa fatta. Certo nessuno mette la testa sul ceppo del voto referendario di inizio autunno, come fece Renzi nel 2016, ma insomma i rischi di una bocciatura sembrano pochi.
Al pari di tutte le riforme costituzionali anche questa, soprattutto questa, dovrebbe essere accompagnata da un nugolo di aggiustamenti e di profonde modifiche dell’assetto della rappresentanza politica, se non vuole risolversi in una macabra esibizione populista.
Un tema importante quello della rappresentanza, anzi decisivo nell’assetto di una democrazia parlamentare come la nostra, le cui ricadute nella vita dei cittadini e sul rating delle loro libertà si percepiscono a stento al di fuori dell’inner circle degli esperti di diritto costituzionale.
Su un punto si registra una qualche convergenza: non è certamente vero che “meno parlamentari” sia sinonimo di un indebolimento del rapporto tra eletti ed elettori.
La qualità delle relazioni e delle interlocuzioni tra i cittadini e i propri rappresentanti è in gran parte rimessa non alla loro distribuzione numerica o quantitativa, ma alla capacità dei protocolli elettorali di innescare circuiti dì responsabilità.
Un parlamento di nominati resta insensibile alle istanze della base elettorale siano 100 o 1000 gli eletti e, su questo, gli ultimi due decenni ci dicono qualcosa.
Al momento il dibattito si concentra su un paio di temi: la legge elettorale, la revisione delle circoscrizioni e, dopo, la partecipazione dei consiglieri regionali all’elezione del presidente della Repubblica.
Nessuno che si occupi di un punto nevralgico parimenti, se non maggiormente, importante: la riduzione della rappresentanza politica avvantaggerà in modo decisivo le lobbies la cui attività di influenza, ovviamente, sarà del tutto agevolata dalla contrazione del numero degli interlocutori parlamentari su cui agire.
Le pressioni e i condizionamenti sui lavori delle commissioni parlamentari e sul voto delle aule saranno immediatamente resi più agevoli dalla costituzione di ridotte oligarchie di deputati e senatori aventi punti di riferimento nei pochi partiti che saranno presenti in Camera e Senato.
Attualmente i senatori sono distribuiti in 14 Commissioni, 2 Giunte, e una decina di commissioni speciali, d’inchiesta e via discorrendo. Tagliando di un terzo il numero dei componenti la Camera Alta è evidente che la capacità di condizionamento e di influenza dei gruppi di pressione ne uscirà fortemente rafforzata e in termini tutt’altro che tranquillizzanti. Basterà avere a disposizione o, peggio, a libro paga una dozzina di senatori (come accade negli Usa) per poter incidere sulla distribuzione delle risorse pubbliche e sul mercato delle nomine. In un paese in cui stanno per arrivare oltre 200 miliardi di risorse europee e che dovrebbe prepararsi a una stagione di riforme radicali lo scenario diventa subito fosco.
La capacità di controllo delle minoranze parlamentari, qualunque modifica si voglia apportare ai regolamenti dei due rami, sarà destinata a evaporare e a ridursi a un mero simulacro. Manca da decenni una legge sulla attività delle lobbies che nessuna forza politica ha mai veramente voluto per continuare ad avere le mani libere negli oscuri rapporti con imprese e gruppi di interesse e le forme oblique di finanziamento.
Non si ha idea neppure di come scriverla questa legge anche per la riluttanza che i protagonisti delle relazioni lobbistiche frappongono a questa normativa. Riluttanza che si sta traducendo in uno stucchevole quanto inutile dibattito sui fondamenti teorici della democrazia rappresentativa lasciando, come sempre, ai magistrati il compito di por mano alla scure punitiva in presenza di conclamate devianze.
Sono le conseguenze ultime della spirale giustizialista che trascura di porre regole politiche e amministrative (traendone grandi vantaggi e capacità di manovra) e rimette il tutto all’eventuale attivismo dei Pm da esaltare e appoggiare a squarciagola contro i reprobi. Se ne dovrà parlare, ma per ora basti l’enunciazione che esiste una relazione diretta e indissolubile tra giustizialismo e corruzione che si realizza e alimenta tutte le volte in cui si affida al codice penale e non a precise regole di gestione e amministrazione il governo della cosa pubblica.
Non si dimentichi che, oggi, la sanzione della corruzione consumata in ambito parlamentare non ha fondamento in alcun norma espressamente dedicata a ciò, ma – come spesso accade – trova radice in una sentenza della Corte di cassazione che, occupandosi del caso del senatore De Gregorio, ha fissato i limiti e le condizioni per la punizione di corrotto e corruttore quando il mercimonio riguardi la funzione parlamentare.
In queste ultime settimane sarebbe stato cruciale spiegare al popolo referendario quali contrappesi si sarebbero approntati per arginare i condizionamenti delle lobbies parlamentari e per assicurare un controllo effettivo sulle scelte delle maggioranze d’aula, ma la tentazione di avere le mani libere sul gruzzolo di denaro in arrivo è troppo forte. Meglio discutere del terribile problema del depotenziamento della rappresentanza in Calabria o in Abruzzo, piuttosto che del modo in cui si intende costruire una democrazia davvero trasparente che non sia consegnata al solo saltuario e imprevedibile controllo della magistratura.
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