Ogni occasione è buona per alzare la tensione tra Stati Uniti e Cina. Non è un mistero che al Pentagono da tempo considerino quello dello “stretto di Formosa” il più probabile casus belli per dare il via allo scontro frontale tra il Dragone e lo Zio Sam. Di più il disimpegno americano annunciato su tutti gli altri fronti mira proprio a liberare risorse e truppe destinate allo scontro finale tra quelle che ad oggi sono le due super potenze globali. Per Washington difendere l’ultimo baluardo della Cina anticomunista è una priorità strategica che va al di là della produzione dei semiconduttori, ma rientra in quella capacità di deterrenza su Pechino che l’America non può alleggerire.

Da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca, tante sono state le illazioni e le ipotesi su un lento abbandono dell’isola, una lettura che cozza molto con l’intera visione geopolitica degli analisti repubblicani, che al contrario vedono da decenni nella Cina il vero nemico, più della Russia, nemico detto da loro resuscitato dai democratici. Lo stesso The Donald non ha mai fatto mancare il suo sostegno a Taiwan e ha più volte ribadito che gli Stati Uniti non permetteranno alcun tipo di aggressione a quella che il regime di Pechino considera l’ultima “provincia ribelle”.

La sfida dell’Indo-pacifico è il cuore della politica militare di Washington, come del resto è stato ampiamente chiarificato nel documento strategico messo appunto dalla Casa Bianca e che ci dice nero su bianco quella che è ad oggi – ciò non vuol dire che non possa mutare – la visione ufficiale che l’amministrazione Trump ha su quelle che considera le sfide globali a cui gli Stati Uniti andranno incontro. Allo stesso modo Pechino si è posta come obiettivo la riunificazione entro il 2050 – nel 2049 saranno cento anni dalla rivoluzione di Mao – e ciò vuol dire che in questo non breve lasso di tempo può accadere di tutto e in qualsiasi momento, soprattutto se l’avversario degli Stati Uniti ha storicamente una concezione del tempo antitetica a quella occidentale.

La stessa Pechino attua costantemente provocazioni su Taiwan e si attrezza per l’invasione, obbligando gli USA ad aumentare il sostegno all’ex isola di Formosa. L’ultimo attrito arriva proprio da una vendita di armi del valore di 11 miliardi a Taiwan ufficializzata dal governo di Taipei. Dall’inizio del secondo mandato di Trump questo è il secondo lotto di aiuti militari, il precedente fu pari a 330 milioni, e si avvicina a quello di 18 miliardi concesso dall’amministrazione Bush nel 2001, un’era geopolitica fa.

La Cina ha protestato ufficialmente e ha chiesto esplicitamente che gli Stati Uniti smettano di finanziare Taipei. Tra Xi e Trump è in atto un gioco sottile, il nuovo “timoniere” sa bene che la Cina non è ancora pronta allo scontro diretto, mostra i muscoli, ma aspetta. Del resto come sosteneva il grande stratega cinese Sun Tzu: “Se il tuo nemico è superiore eludilo, se è irato irritalo, se è di pari forza lotta”. Fino a quel giorno Pechino resterà sulla riva del mare, limitandosi a stuzzicare ma nulla di più. Fino a quel giorno però.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese per grazia di Dio e conservatore per vocazione. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022 a maggio 2025. Oggi e per sempre al servizio della Patria. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito: John Wayne.